L’aldilà (1981) di Lucio Fulci.

di Fabrizio Spurio

“E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile”.

Terzo film della trilogia della morte (secondo in ordine cronologico, preceduto da “Paura nella città dei morti viventi” e seguito da “Quella villa accanto al cimitero”), e terza pellicola interpretata da Katherine MacColl nel ruolo di Liza Merril, affiancata questa volta da David Warbek che interpreta il dottor John McCabe. Nel film compaiono anche Michele Mirabella nel ruolo di Martin e Cinzia Monreale n quello di Emily. Si può dire che questo film sia l’apice della poetica dell’orrore di Fulci, un film “totale, che contenesse tutti gli orrori del mondo” come amava ripetere il regista. In effetti la sceneggiatura di “L’aldilà” scritta con Dardano Sacchetti come i precedenti horror di Fulci, sembra quasi una sequenza di scene scollegate, tenute insieme solo dal filo dell’assurdo e del male. Un male che può colpire chiunque, in qualunque momento e modo, senza una vera concatenazione logica. Il film si apre con un prologo girato in bianco e nero (poi virato in seppia in fase di montaggio) ambientato in Louisiana nel 1927. Un gruppo di contadini penetra di notte in un albergo dove, in una stanza, vive il pittore Zweick (Antoine Saint-John). Accusandolo di stregoneria i contadini lo uccidono a colpi di catena (una scena che rimanda al linciaggio di Florinda Bolkan in “Non si sevizia un paperino”), e gettandogli calce viva sul corpo. Il cadavere del pittore rimane inchiodato al muro. Prima di morire supplica i contadini di risparmiarlo, in quanto l’albergo è costruito su una delle sette porte dell’Inferno, e solo lui conosce il modo per bloccare il male. Come in “Paura nella città dei morti viventi” anche qui la morte di un personaggio scatena il male sulla terra.

Ai giorni nostri l’albergo è ereditato da Liza, che tra molte difficoltà, vorrebbe riportarlo agli antichi splendori e riaprirlo al pubblico. Ma molti incidenti rallentano i lavori di restauro e Liza inizia a dubitare della sua idea. Gli avvenimenti soprannaturali si susseguono senza un filo conduttore, anche perché il male, in realtà, non ha una sua logica. Questo Fulci sembra averlo capito bene, e per questo vediamo il corpo del pittore emergere da una cantina allagata, per poi ritrovarlo steso su un letto d’obitorio nell’ospedale della città, e di seguito di nuovo in una camera dell’albergo. Mani mostruose escono dai muri per cavare gli occhi dei vivi, lampi di luce “assalgono” i protagonisti facendoli precipitare dalle scale, come succede nella sequenza della morte di Martin. L’uomo si trova nella biblioteca della città per controllare le mappe dell’albergo. E’ su una scala, ma d’improvviso un lampo di luce lo assale facendolo precipitare a terra. In stato di incoscienza Martin non può difendersi da una torma di tarantole che si accaniscono su di lui, strappandogli brani di carne, un occhio e addirittura entrandogli in bocca per divorarli la lingua. Una sequenza lenta e dolorosa, che non lascia nulla all’immaginazione, mettendo in campo quella crudeltà che è cifra stilistica di Fulci.

L’ineluttabilità del male e la visionarietà della pellicola sono esplicate perfettamente nella scena in cui la piccola Jill ((Maria Pia Marsala) e sua madre Mary Ann (Laura De Marchi) si recano all’obitorio dell’ospedale per vestire il cadavere di Joe (Giovanni De Nava), l’idraulico ucciso, misteriosamente, nella cantina allagata dell’albergo. Mentre Jill attende fuori la madre entra nell’obitorio, e tra i tanti cadaveri stesi sui tavoli di metallo, inizia a vestire il marito. Poi di colpo si volta urlando. Non ci è dato sapere cosa abbia visto, ma nell’obitorio è stato portato anche il cadavere di Zweick. Dal corridoio Jill ode l’urlo della madre, e spaventata entra nella stanza. Qui inizia una scena che potrebbe benissimo essere definita un film a sé stante. Non ci sono delle motivazioni logiche per quello a cui stiamo assistendo in questo momento. Tutto sembra essere legato ad un caso comandato solo dall’orrore che si vuole mostrare sullo schermo. Jill vede il corpo senza vita della madre steso a terra, accanto ad un armadio. Da sopra l’armadio una boccia di acido si rovescia a rallentatore, facendo cadere il liquido sul volto della donna. L’audio amplifica il suono del liquido che sciaborda all’interno del vaso, catturando l’attenzione dello spettatore su quell’oggetto, su quel liquido. La tensione sale mentre il liquido inizia a corrodere il volto della madre. Jill osserva con occhi sgranati. In dettaglio vediamo il liquido, misto al sangue, allargarsi sul pavimento. La musica che accompagna la scena è minacciosa, il sonoro esalta lo sfrigolio dell’acido mentre avanza sul pavimento verso Jill. In questo momento lo spettatore è ormai convinto che l’acido viva di una volontà propria, che voglia uccidere anche Jill. La macchina da presa è posizionata sul pavimento, e la marea rossa sembra immane sullo schermo mentre, lenta ed inesorabile, continua la sua avanzata. Quando è a pochi centimetri dalle scarpe di Jill la ragazza si sposta, allontanandosi da quella marea schiumosa e maledetta. La schiuma rossa continua a scivolare verso di lei. Ormai lo spettatore sa che quella schiuma, in qualche modo, è viva e senziente. Jill fugge tra i tavoli dell’obitorio, tra i cadaveri, ma sentiamo ancora il rumore dell’acido che avanza. Poi, a dimostrare che tutto è male, Jill apre una porta della cella frigorifera, ma all’interno i cadaveri hanno preso vita e l’assalgono.

Potremmo pensare che sia finita qui, ma subito dopo vediamo Jill, al cimitero, mentre vengono celebrate le esequie della madre e del padre. Come ha fatto Jill a salvarsi dagli zombi? La ragazza saluta, ad occhi bassi, i presenti che le danno le condoglianze, poi rimasta sola alza finalmente lo sguardo. Le sue pupille sono bianche, gli occhi sono ciechi, segno della contaminazione con il male avvenuta in lei.

La cecità è un tema che ricorre in tutto il film. Gli occhi vengono strappati dalle orbite, succede a John, l’idraulico, a cui, una mano putrefatta (sbucata da un muro della cantina, dietro il quale probabilmente si trova il corpo di Zweick), strappa via un occhio scalzandolo con un artiglio delle dita; come succederà più tardi a Martha (Veronica Lazar, già Mater Tenebrarum in “Inferno” di Dario Argento), cameriera factotum dell’albergo che, nella stanza dove era stato ucciso Zweick, viene aggredita proprio dal cadavere di John, che la spinge contro un muro sul quale sporge un grande chiodo. Il chiodo le sfonderà la nuca uscendole proprio dall’occhio. Ci sono poi gli occhi ciechi di Mary, personaggio emblematico della pellicola, vero e proprio ponte tra le varie dimensioni del film. Mary rappresenta il tratto d’unione tra il mondo dei vivi e l’aldilà infernale che sta invadendo la realtà. E’ cieca perché all’inizio ha osato vedere, conoscere, quello che è scritto sul libro di Eibon, testo maledetto che predice la venuta del male. Le fiamme che si sprigionano dalle pagine del libro le tolgono la vista. Mary ha letto troppo, forse più di quello che le era concesso. Non vede, ma sembra essere una guida per Liza. Fulci sceglie di introdurre questo personaggio nella vicenda in un modo che suggerisce allo spettatore il suo essere “oltre”. Liza è alla guida della sua macchina. Sta percorrendo una strada dritta, che sembra andare all’infinito. Ai due lati della strada c’è il mare sconfinato. La macchina percorre la strada al centro esatto delle due carreggiate. Fulci sembra dirci che intorno a Liza c’è il nulla, un deserto che non è deserto, ma che offre la medesima sensazione di isolamento, il sole illumina la scena totalmente. Lo sguardo della donna spazia verso l’orizzonte. C’è un primo piano di Liza alla guida. Poi il controcampo della ragazza. Vediamo la strada con i suoi occhi: al centro della strada, lontano, quasi un punto all’orizzonte, c’è Mary, in piedi, dritta come un totem, accanto a lei il suo cane lupo guida. Non ci è dato di sapere come Mary sia arrivata li, da dove sia venuta. E’ semplicemente apparsa sulla scena. Liza continua a guidare e quasi si accorge all’ultimo di Mary, frenando a pochi centimetri da lei.

Mary è cieca. Spesso vediamo il dettaglio dei suoi occhi bianchi. Quegli occhi che sono il simbolo del male che dilaga sulla terra, gli stessi occhi bianchi che ha Jill dopo essere stata contaminata dagli zombi nell’obitorio dell’ospedale. Ma Mary rivela a Liza il pericolo che incombe su di lei. Tradisce il male rappresentato dal fantasma di Zweick. Mary sarà punita per questo tradimento proprio in casa sua, e sarà proprio il suo cane guida a giustiziarla, in una scena che ricorda molto, forse troppo, quella analoga dell’omicidio del pianista cieco in “Suspiria”.

Il finale del film è un esempio perfetto di arte surrealista. Ormai circondati dai morti viventi, che sembrano aver invaso l’ospedale, Liza e John fuggono nei sotterranei, che scoprono essere collegati con le cantine dell’albergo maledetto. Oltrepassano un muro franato. Oltre il muro una distesa desertica, oscura, invasa dalla nebbia. A terra giacciono corpi inerti, mentre voci sussurrano i loro nomi. John e Liza si voltano, per tornare indietro, ma il muro è scomparso, c’è solo quella distesa desertica che continua per sempre. E’ la stessa immagine rappresentata in un dipinto, ad inizio film, da Zweick. Si prendono per mano, terrorizzati, e corrono cercando una via d’uscita. La telecamera porta in primo piano i loro volti: i loro occhi sono bianchi, ciechi, come quelli di Mary. Ormai sono perduti per sempre nell’aldilà.

Fulci decide di lavorare ancora con Sergio Salvati alla fotografia, bellissimi i suoi primi piani di volti che sembrano emergere dal nero profondo. L’atmosfera della sequenza finale è dovuta all’unione del lavoro di Salvati con lo scenografo Massimo Lentini, che si ispirò ad alcuni quadri del pittore Fabrizio Clerici. A sottolineare il tutto la musica di Fabio Frizzi, sempre vagamente inquietante. Gli effetti speciali, particolarmente riusciti e raccapriccianti, sono dovuti alla bravura di Giannetto De Rossi e Maurizio Trani. Incarnano nel film quella visione della crudeltà che in quel periodo caratterizzava l’opera di Fulci. Altra caratteristica del film, che si ritrova nelle altre pellicole del regista, è l’idea di un’infanzia vagamente minacciosa, qui resa perfettamente dal personaggio di Jill. Infatti la ragazza, dopo essere stata contaminata dal male, non esiterà ad aggredire anche Liza. La violenza della pellicola non risparmia neanche Jill, uccisa da un colpo alla testa sparato da John. Fulci mostra, senza alcuna censura, il devastante effetto che il colpo ha sulla testa della bambina. Per lui la morte non risparmia nessuno, non è più delicata perché colpisce il corpo di una dolce bambina, ma anzi se può sembra anche più spietata. Si palesa chiaramente l’omaggio di Fulci per il “Teatro della crudeltà” teorizzato da Antonin Artaud, creando quindi una rappresentazione capace di disturbare lo spettatore, a scuoterlo nel profondo. Fulci continuerà questo discorso di ricerca con il successivo film “Quella villa accanto al cimitero”.

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