di Roberta Lamonica
“Di me ricordati, onde io non resti senza lagrime addietro”
(XI libro dell’Odissea)

Presentato in concorso alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2021 e film di chiusura del Trieste Film Festival 2022, il debutto al lungometraggio di Laura Samani, Piccolo Corpo – una storia di coraggio e amore materno ambientata agli inizi del ‘900 nel nord est italiano – è un piccolo miracolo di grazia e bellezza, distribuito da Nefertiti Film, con Rai Cinema (in co-produzione con Tomsa Films e Vertigo).
Il mondo evocato in questo toccante, delicato eppur solidissimo primo film di Laura Samani – che lo ha diretto, ideato e co sceneggiato – è un mondo antico, patriarcale, che a tratti ricorda quel monumentale affresco contadino che è L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi ma che strizza l’occhio in modo misurato e mai spettacolare anche al fantastico e al fiabesco. Il mondo di Piccolo Corpo è crudele, anche: è un mondo di vinti, in cui il senso di comunità si esprime attraverso canti popolari e riti religiosi che rimandano a vecchie credenze ma in cui la povertà e la lotta per la sopravvivenza hanno quasi sempre il sopravvento sulla compassione e la pietà. Un mondo in cui le immutabili leggi della natura – maestosa nei campi lunghi del mare, dei laghi, dei boschi, voce imperante e vita pulsante – vengono ‘contrastate’ con dogmi religiosi che pure ‘accarezzano’ superstizioni e antiche leggende.

Questo è il mondo in cui Agata (Celeste Cescutti) partorisce una bimba senza vita, che famiglia e parroco seppelliscono senza che lei ne sia almeno informata, senza che le possa dare un nome, senza che la possa vedere almeno una volta. “Ne farai altri”, le dicono. Ma Agata – a suo modo giovane moderna, essere umano in transizione verso l’auto determinazione e la consapevolezza di sé come donna – parte per un viaggio coraggioso e improrogabile verso un santuario leggendario e miracoloso così che l’amore nutrito per quella figlia portata in grembo per nove mesi, le sofferenze del parto e la minimizzazione del suo dramma di donna e madre non restino vani ma abbiano almeno un riscatto: un nome e un alito di vita a quella creatura strappata alla luce e destinata a un eterno Limbo. E il viaggio di Agata si configura come un vero e proprio Calvario ma anche come un viaggio nell’Oltretomba, perché quel piccolo corpo, quel fardello di amore, il senso della propria stessa esistenza abbia una tomba su cui ella possa piangere e un nome che la ricordi, piccolo segno del suo passaggio sulla Terra prima di giungere al Paradiso che merita, perché innocente e forse perché donna in un mondo in cui le donne in vita sono invisibili come la creatura morta senza che sia stato concesso di avere almeno un nome.

Un film meravigliosamente al femminile, Piccolo Corpo, in cui la presenza maschile è relegata a momenti marginali e spesso associata a una dimensione di indifferenza, sopraffazione e prepotenza. Prerogative esclusive delle donne sono la pietà, la solidarietà, il coraggio e anche il ruolo di ‘sacro’, quello di performare il passaggio rituale finale. Un film che parla di passaggi e transizioni; un film in cui la natura e i suoi elementi sono parte essenziale della progressione del mondo che racconta; l’acqua, in particolare: il liquido amniotico nel ventre di Agata, l’acqua del mare che la conduce alla sponda da cui inizierà il suo grande viaggio; l’acqua del lago del suo ultimo passaggio; l’acqua che la riporta nel brodo primordiale che anticipa e definisce l’origine di ogni esistenza; le lacrime che bagnano il bellissimo e ‘fluido’ volto di Lince (Ordina Quadri), che raccoglie con responsabilità – ma soprattutto con amore – l’eredità di Agata.

Un film di transizione, dicevamo, di cui Lince è centro tematico ed espressivo. Lince parla la lingua di Agata, quella del mare, ma anche quella della sua comunità, quella della montagna; Lince è maschio, ma anche femmina. Lince è un brigante, ma anche un amico sincero per Agata. Un’amicizia inaspettata, nata in una grotta buia “da cui le donne non sono mai riuscite ad uscire”. E invece in quella grotta paurosa due lanterne che illuminano due esistenze reiette e solitarie diventano una sola, quella che accompagna Lince e Agata verso l’uscita e la luce. Il canarino liberato da Lince all’uscita è simbolo fin troppo leggibile di libertà e affrancamento da convenzioni e costrizioni, vero momento di inizio di un destino condiviso e che porterà Lince ad affrontare le sue paure e la sua identità, accettandosi e perdonando chi si ostina a negare il valore della sua esistenza come essere umano.

Un capolavoro di silenzio e flusso, di impenetrabile solidità e spettrale trasparenza, di fioritura e caducità simultanee. La vita e la sua glorificazione sono al centro del film di Laura Samani ma la morte e la sua ineluttabilità sono sempre lì a leccare i bordi e a consumare in una luce livida e fredda anche le immagini più speranzose.
“Nel flusso e riflusso nelle nostre vene della felicità e dell’infelicità”, della vita e della morte, c’è forse l’anima di questo film che ci fa perdere nella traduzione (è in dialetto veneto e in friulano) ma soprattutto nella sublime poesia delle sue immagini e nel mistero della forza dell’amore materno e della sorellanza… come un’onda che fluisce e rifluisce lì, nel… Mare.

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