Crimes of the future, di David Cronenberg (2022)

di Roberta Lamonica

“Prende la ribellione del proprio corpo e ne prende il controllo. Lo modella, lo tatua, lo mostra, ne fa spettacolo”

(Timlin)

È sugli schermi delle sale cinematografiche in questi giorni, Crimes of the Future, l’ultimo lavoro di David Cronenberg. presentato a Cannes 2022 (dove è stato accolto in modo contrastante). Nel film ritornano i temi caratterizzanti il cinema del regista canadese, con un focus particolare sulle terribili conseguenze del disprezzo del corpo, inteso come tempio dedicato ed elemento imprescindibile per la definizione stessa di umanità.

In un futuro imprecisato, buio e ‘fermo’ a prima di un qualche mai nominato evento che ne ha delineato tratti di decadenza e abbandono, l’ex chirurga Caprice e il suo compagno Saul Tenser organizzano delle performance artistiche in cui lei rimuove i nuovi organi che lui è in grado di sviluppare e che ne determinano una metamorfosi interna. Il loro percorso si intreccia con quello dei responsabili del Registro Nazionale degli Organi e del Governo ma anche con una storia di dolore personale e con le vicende di un sospetto gruppo sovversivo che sembra promuovere il prossimo stadio evolutivo dell’umanità.

Crimes of the future segna il ritorno dell’ormai ottantenne regista canadese al body horror e all’ossessione per la tecnologia che ha caratterizzato la sua produzione cinematografica – da Pasto Nudo a Videodrome ed eXistenZ., da Inseparabili a Crash e a La mosca). Qui la sua analisi autoriale si vena di ulteriori riflessioni sui possibili sviluppi del cammino senza speranza intrapreso da una società ‘cannibale’, da una civiltà positivista talmente in simbiosi con la tecnologia che ha creato e da cui è stata completamente soggiogata da aver perso la capacità di percepire sensazioni legate alla ‘chimica’ naturale dei propri corpi e dall’aver bisogno di forme di eccitazione perverse e ‘ibridate’ .

E se il mondo fuori dal corpo è scrostato, arrugginito, affondato in una eterna notte marcescente, dove canoni estetici e limiti di intervento sul ‘bello esteriore’ vengono continuamente ridefiniti e spostati più in là, il mondo dentro il corpo è in continua trasformazione con la formazione di nuovi organi, che vengono registrati, tatuati all’interno del corpo che li produce, nuove escrescenze perlopiù inutili: “Sindrome da Evoluzione Accelerata”, la chiamano e Saul Tenser ne è l’esempio più illustre.

Saul Tenser (Viggo Mortenssen)

Osannato e celebrato, Viggo Mortensen è l’artista performativo Saul Tenser, appunto, voce roca e affaticata di antico dolore, una leggenda della body art estrema, un incrocio tra un personaggio di una graphic novel, un santone e il Triste mietitore. Con lui è Caprice (Léa Seydoux), ex chirurga e sua compagna nella vita e nell’arte. Una presenza sensuale e ‘umana’, quella di Caprice. Il suo corpo voluttuoso, le sue forme morbide, il suo volto senza tempo, contribuiscono a creare un legame inscindibile tra la vita – da lei rappresentata – e la morte, che trova compimento anche estetico in Saul e nel suo aspetto malato e in disfacimento. Anche gli altri protagonisti del film funzionano secondo uno schema di coppie complementari: Wippet (Don McKellar) e Timlin (Kristen Stewart), gli orwelliani funzionari dello squallido Registro Nazionale degli Organi; i tecnici della Lifeform Ware Router (Nadia Litz) e Berst (Tanaya Beatty), che con i sofisticati macchinari che calibrano e mettono a punto, alleviano le sofferenze di un genere umano incapace di sostenere il peso ‘biologico’ della propria esistenza, ma al tempo stesso lo rendono dipendente dalla tecnologia che hanno creato. Chi è solo è destinato a perdersi: è il caso di Lang Dotrice, del dott. Nasatir e del quasi impalpabile detective Cope, quasi a suggerire che, in tanta superata umanità, il mutuo supporto è comunque condizione necessaria per la sopravvivenza.

Il letto della LifeForm Ware

“Il mondo sta uccidendo i nostri bambini dall’interno verso l’esterno”

Il film si apre sul crimine più orrendo, una madre che ammazza il proprio figlio, novella Medea che si vendica dell’ex marito cercando di salvare il mondo dall’evoluzione lamarckiana che lui incarna; in questo modo Cronenberg definisce fin da subito il tono del film. Ma questa morte non ha una portata davvero tragica, però, perché non si ha la percezione di un dolore individuale – unico, profondo e condiviso – costruito per coinvolgere emotivamente lo spettatore. Sembra una morte quasi esclusivamente funzionale a una particolare esigenza nello sviluppo narrativo del film, ma non piena di una propria tragicità.

Eppure la morte di Brecken ha un impatto enorme sui protagonisti perché egli è la prova della compiuta trasformazione verso un’umanità (?) ‘altra’. E quell’umanità giace grigia e fredda davanti a loro e a tutto il loro mondo. È un’unanimità che fa ribrezzo, che inchioda tutti alle proprie responsabilità e che per questo è capace di far provare un disagio tanto forte da rievocare sensazioni di dolore.

Brecken

Perché in effetti non si prova più dolore, in questo mondo distopico: qualche lacrima, lente movenze come di fardello opprimente, qualche sospiro o gemito in sogni turbati. Il corpo è diventato la sede di ogni possibile esperienza: viene ferito, mutilato, deturpato, profanato. Il “nuovo sesso” è dare e provare dolore: rivoli di sangue su tagli come gli spasmi dell’orgasmo e un voyeurismo bramoso si sostituiscono all’attesa e all’emozione del contatto; tagli come ‘stigmate’ sull’ ’eletto’ Saul.

L’umanità qui rappresentata da Cronenberg è emblematica, si muove in angoli bui, in spazi fuori fuoco dietro primi piani o mezzi primi piani che si chiudono su corpi che si espandono su iper tecnologici tavoli operatori, divaricati da bisturi che si muovono agili davanti allo sguardo eccitato di allucinati spettatori. Un film concettuale,, più che una storia dalle linee narrative risolte e complete, Crimes of the Future: l’ossessione per un’arte performativa che sciocchi, che sfidi la morte, che estremizzi i luoghi fisici del piacere, che aneli alla trasformazione e alla trascendenza è il possibile centro focale di una storia dai contorni indistinti.

Klinek

Il sacrificio di un bambino, una probabile Apocalisse e un novello profeta, con l’apertura a una possibile ‘transumana’ rinascita.

Nell’estasi che chiude il film Saul Tenser – ripreso attraverso l’occhio artificiale della videocamera di Caprice – appare incredibilmente simile alla Giovanna D’Arco di Dreyer, ma anche a tanta pittura iconografica cristiana. Un’estasi che supera il sesso della carne e anche quello dei concetti, le cerniere che danno l’accesso diretto al ‘bello interiore’ e l’esaltazione di un senso attraverso la negazione degli altri (vedi la performance di Klinek). In tutto ciò non si può non riconoscere un abbandono al Transumanesimo e alla sua forza ‘generatrice’ e al tempo stesso un tentativo di superamento dello stesso. Arrendendosi a una volontà superiore, Saul accetta la sua nuova condizione che paradossalmente si prospetta come latrice di una nuova umanità. La tecnologia che controllava le sensazioni di dolore si ferma, perché Saul si è emancipato rispetto ad essa. La carne non può più essere mortificata perché il sacrificio di Brecken ha consentito l’accettazione di una rinascita in una nuova forma che dia all’uomo un nuovo, passivo e disperato equilibrio senza passare attraverso la morte e la distruzione, come in quasi tutta la precedente filmografia del Maestro canadese.

E in quella ‘question of will’ che Wippet identifica come essenziale per l’atto artistico, possiamo forse scorgere l’ultimo strenuo tentativo di resistenza di Saul, cioè dell’Umanità tutta, all’inevitabile cambiamento. Non si arrende ma sceglie di accoglierlo, diventando così quasi faustianamente attore di un destino sì ineludibile ma che lui e solo lui, senza condizionamenti, ha deciso di accettare.

3 risposte a "Crimes of the future, di David Cronenberg (2022)"

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  1. Visto proprio ieri sera, questo film mi ha convinto appieno, come sempre del resto quando mi trovo di fronte a un’opera di Croneneberg. Mi spiace che in molti momenti si nota palesemente che i soldi dietro al progetto non erano sufficienti a creare l’impianto visivo sperato.

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    1. Sì, è decisamente un film di Cronenberg, in tutto e per tutto. Secondo me la ‘pecca’, se vogliamo trovarne una, è più nella sceneggiatura che a tratti si sfilaccia, lasciando inconcluse linee narrative che avrebbero meritato maggiore sviluppo. ☺️

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