Sul Multiverso di Everything  Everywhere All at Once

ovvero

Quando la domanda sulle ragioni del trionfo di un film è più significativa del film stesso

di Marco Grosso

Come ormai tutti sanno, “Everything  Everywhere All at Once” dei The Daniels l’altra notte ha trionfato con ben 7 Oscar. Per quanto non sorprendente possa sembrare un tale esito va subito detto che tra gli addetti ai lavori l’unico a prevederlo con assoluta precisione, insieme a tutti gli oscar assegnati nel loro insieme eccetto quello del miglior attore protagonista, è stato il sistema dell’AI (e già questo potrebbe essere l’incipit di una riflessione a sé).

Non era mai successo prima, nella storia degli Oscar, che un film vincesse in tutte e 6 le categorie principali.  Ebbene dichiaro immediatamente, a titolo personale, che si tratta a mio giudizio di uno dei film più sopravvalutati di sempre e confesso il mio stupore nel vederlo celebrato e salutato su diversi autorevoli siti cinematografici e svariate bacheche social di contatti cinefili come esempio di “cinema che riscrive le regole del cinema” o “sposta le frontiere del cinema”, di “cinema insieme cinefilo e popolare, carico di sovversione e con un’ambizione narrativa senza limiti”, come “un capolavoro che viene dal futuro”, “un film di cui si ragionerà in futuro come una delle tappe fondamentali del multiverso”, giusto per citarne alcune.

Ora, al netto della pregevole ed eclettica interpretazione multipla della protagonista e di qualche buona trovata qua e là sul piano visivo e narrativo, trattasi a mio giudizio di un minestrone indigesto di produzione statunitense in stile Cinecomic Marvel e in salsa asiatica kung-fu e wuxia, che mette insieme tutto il campionario dell’inclusivismo  piacione e politically correct (tanto caro all’Academy e ad Hollywood), effettoni speciali e rompicapi sci-fi ricavati  da riletture fantasy della fisica quantistica e adattamenti pop della teoria del Multiverso: un action movie sfrenato e tipica commedia americana dei buoni sentimenti condito dalla giusta dose di mélo lacrimevole e di melassa psicologistica sulla crisi delle relazioni famigliari. 

Il tutto ripreso – montato – frullato a una velocità vorticante e urticante capace di catapultare lo spettatore in un turbo-videogame multilivello, in un forsennato ed estenuante caleidoscopio audiovisivo di quasi 2 ore e mezza, con punte di nonsense e di surrealismo kistch a tratti imbarazzanti che qualcuno ha avuto il fegato di accostare a Lynch o a Gondry, ma che finisce per sortire (almeno su chi coltiva un’idea di cinema totalmente diversa) proprio l’effetto che più di tutti vorrebbe evitare: la noia mortale.

Cinematograficamente molto più profondi e più riusciti del posticcio Nuovo-che-avanza c’erano a mio giudizio almeno una decina di film del 2022. Tra quelli che ho visto menzionerei : il nuovo film visionario di Cronenberg Crimes of the future (quello sì vero cinema provocatorio che giunge “dal futuro”, scandalosamente ignorato e neppure candidato), l’avvincente Elvis, il dreyeriano “Godland” (non candidato), l’intimistico Un eroe (non candidato), lo struggente Aftersun (non candidato), il nero e spiazzante The Banshees of Inisherin (Gli Spiriti dell’isola), il metacinemtografico e autobiografico “The fabelmans”, i commoventi Living (non candidato) e  “The Whale”,  l’attualissimo remake di Niente di nuovo sul fronte occidentale (che almeno è riuscito a strappare 4 statuette all’asso pigliatutto).

Ma veniamo alla vera domanda perché un film come questo ottiene due Golden Globe, fa incetta di tutti gli Oscar che contano, incontra anche il favore di certa critica non solo mainstream

Trovo che nella sua semplicità e apparente banalità tale domanda sia senza dubbio e più interessante e stimolante del film stesso.

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Potremmo intentare le più svariate ipotesi, tutte plausibili: forse perché si tratta di una produzione americana che torna a celebrare, nelle vesti di un’immigrata asiatica che gestisce una lavanderia, l’epopea supereroica e individualistica del salvatore (qui salvatrice) delle sorti del mondo (qui esteso, ben oltre il nostro pianeta, a tutti gli universi del Multiverso soggiogato da un oscuro e ben più potente Matrix 3.0)? Anche.

Forse perché con il successo planetario di un film come questo risorge mediaticamente e retoricamente, in forma neanche troppo velata, il mito del melting pot statunitensee soprattutto the american dream come dichiarato con enfasi e tra le lacrime dall’attore Ke Huy Quan (rifugiato vietnamita migrato in USA all’età di 4 anni) nel momento in cui ha ritirato il suo Oscar come migliore attore non protagonista? Anche. 

Forse per tutto l’immaginario che evoca la protagonista sessantenne Michelle Yeoh, la tigre della Malesia e star di Hong Kong, la regina delle arti marziali che tanto piace alla Universal Studios Hollywood (per inciso l’interpretazione virtuosistica della Yeoh resta nettamente al di sotto di quella monumentale offerta in Tár da Cate Blanchett sua concorrente all’Oscar per la migliore attrice protagonista)? Anche.

Forse perché era stato accuratamente e furbescamente confezionato per piacere alle più svariate fette di pubblico come ai patiti dei fumettoni della Marvel e del Fantasy, agli innumerevoli fans dei Wuxia e del Kung-fu movie, agli amanti del più classico mélo hollywoodiano e perfino agli estimatori degli sci-fi cervellotici simil-Nolan? Anche. 

Forse per racimolare i 100 milioni di dollari che ad oggi ha incassato nel mondo partendo dai 25 milioni di budget? Ovvio.

Ma c’è una ragione più sistemica e profonda, ma anche più inquietante ed emblematica di questi tempi, una ragione che trapela già dal solenne e altisonante lancio promozionale: “È il film definitivo sul Multiverso”.

L’appeal e il rilancio della teoria del Multiverso, già consacrata al successo l’anno scorso con Doctor Strange nel Multiverso della Follia, ci racconta indirettamente e sotto traccia qualcosa di molto più significativo sul paradigma dominante del nostro tempo e sul funzionamento della sua onnipervasiva super-ideologia

Sottratta al suo ambito disciplinare e innestata nelle logiche del Metaverso 3.0 e delle sue Realtà parallele (con le sue infinite bolle algoritmiche e le sue realtà aumentate) il Multiverso finisce per rappresentare la prigione senza via d’uscita del sistema ordo-liberista che di fatto negli ultimi vent’anni ha fagocitato tutto e tutti. 

Cosa c’è infatti di più funzionale, per lo status quo neoliberista e globalista, di questo combinato disposto di Multiverso e Metaverso che ci intrappola senza possibilità alcuna di fuga e di resistenza spingendo l’individuo post-umano all’evasione simulata verso identità parallele e vite alternative virtualmente infinite (dove non c’è più nulla di irripetibile e di irreversibile perché ogni destino può essere riscritto in una vita parallela; dove non c’è più né bene né male, né verità né menzogna perché ogni possibilità di bene e di male, di verità e di menzogna è stata realizzata in uno degli universi possibili; dove non c’è più decisione possibile tra X e Y perché viaggiando tra gli universi paralleli posso decidermi per X in un universo e contemporaneamente per Y in un altro , dove non c’è dunque più nessuna responsabilità e nessuna colpa). Quale idea può sedurre più irresistibilmente il consumatore isolato e interconnesso, l’individuo atomizzato e globale, liquido e flessibile, indotto a credere di essere illimitatamente libero e soggetto-oggetto di una sperimentazione indefinita? cosa può distoglierlo con più efficacia proprio dall’unica realtà fisica e sociale in cui il Potere lo tiene schiacciato, alienato, sradicato da tutto e da tutti? Quale ipotesi può riscattare tutti i fallimenti e le frustrazioni che ha cumulato nel corso di una vita e rispetto a una delle realtà possibili?

Inoltre il sistema del Multiverso-Metaverso proprio in forza della sua impersonalità e della sua subliminale onnipervasività non esercita forse meglio di qualsiasi altro sistema di dominio gerarchico e unidirezionale il potere di imporsi dall’alto e dal basso e da tutte le direzioni, everything everywhere, assicurarsi la resilienza passiva dell’individuo e la sua totale inoffensività per il Potere costituito? 

Eccoci di fronte ad un apparente paradosso che può stupire solo le anime belle: lo stesso alienante “modello di sviluppo” che ricorre alla fatidica formula del “there is no alternative” per imporsi come un destino ineluttabile abbraccia una “visione del mondo” in grado di prospettare e promettere all’individuo una indefinita quanto chimerica possibilità e libertà di trapassare da un’identità all’altra, da una realtà alternativa all’altra, così da abolire impercettibilmente il principio stesso di realtà e permettere al Potere costituito di immunizzarsi perfettamente da ogni possibilità e rischio di reazione e di rivolta dal basso, dal pericolo che reputa più letale di tutti: il ritorno degli individui e delle comunità alla “Politica” (intesa come capacità individuale e collettiva di trasformazione della realtà e non solo come gestione escludente del potere).

Nulla di più reazionario e auto-conservativo, a ben vedere, di questo adattamento tutto ideologico e subdolamente propagandistico del Multiverso/Metaverso e in questo contesto poco più di uno specchietto per le allodole diventa quel “progressismo” retorico e di maniera di cui tale super-ideologia si ammanta e con cui si auto-legittima al cospetto della pubblica opinione.  

Probabilmente queste mie riflessioni sparse, che hanno solo preso spunto dalla stroncatura critica di un film trionfale, appariranno elucubrazioni pretestuose e mi sembra già di leggere le critiche e le obiezioni che le verranno mosse, ma a distanza di un paio di mesi dalla visione di questo film e alla luce della notte degli oscar,  resto convinto che a rileggerlo in questa chiave il trionfo epocale di Everything non ci parli solo di incipienti mutazioni generazionali nel gusto cinematografico ed estetico, ma dello strapotere di un’idea di mondo sempre più distopica che va affermandosi a tutti i livelli, che stiamo introiettando a una velocità incontrollata e che rischiamo di interpretare sempre più acriticamente e inconsapevolmente  come (cattivi) attori ridotti al ruolo di (s)comparse. 

E a quel punto non ci sarà realtà parallela che ci salverà.  

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