di Roberta Lamonica

È al suo primo weekend al cinema Triangle of Sadness, il film vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.
Dopo il folgorante Forza Maggiore e il provocatorio The Square (anch’esso vincitore sulla Croisette) che metteva alla berlina la vacuità e la superficialità del mondo che gira intorno all’apprezzamento estetico e al gusto artistico contemporaneo in una Stoccolma provinciale e borghese come non mai, Ruben Östlund continua la sua critica caustica e feroce alla società occidentale, ai suoi riti, ai suoi capricci, alle sue folli manie.

E nel fare ciò non si (e ci) fa mancare nulla: la ‘solita’ critica ai social media e ai suoi ‘mestieri’ derivati (tema ormai tanto abusato da non suscitare quasi più alcuno spunto di riflessione o dissonanza cognitiva), il dito puntato contro la società dell’immagine, la moda e il suo mondo fatto di ‘poco’, dove le espressioni di finta felicità sono riservate ai brand di grande distribuzione, illusoria promessa di uguaglianza, una specie di oppio che inganna l’ingannatore; un mondo dove le disparità retributive invertono i ruoli tradizionali in una finta pretesa di parità di genere; una ridefinizione di ciò che l’onnipotenza della ricchezza può comprare, con la formazione di nuove schiavitù – in realtà sempre le stesse – lo svuotamento ideologico e dialettico del dibattito politico, ridotto a ‘gioco di citazioni’ e luoghi comuni e infine il test di sopravvivenza sull’isola, il ritorno alla natura che ormai è declinato in tutte le salse e che qui prende la più convenzionale delle pieghe.

La struttura tripartita dà al film un respiro in qualche modo teatrale, con un funzionamento prevalentemente di coppia nei rapporti tra i personaggi, in cui però c’è spesso l’inserimento di un terzo elemento di disturbo o di messa in discussione dell’equilibrio precedente.
Interessante la prima parte, quella che vede la coppia di giovani protagonisti discutere su un conto da pagare al ristorante. Östlund esaspera i dialoghi, li dilata, li riprende ossessivamente. Ai discorsi sulla uguaglianza tra i sessi fanno eco discorsi sulla generosità e la disponibilità; è nella terza parte che si assisterà allo svelamento dell’ ipocrisia di un finto nuovo ‘primato della riflessione’ nella dinamica apparenza/realtà.
La seconda parte e la terza parte sfociano nel grottesco quasi subito. L’ opposizione sopra/sotto, Est/Ovest, ricchi/poveri, sfruttatori/sfruttati prende strade e direzioni prevedibili e già ampiamente percorse con ben altri esiti artistici.

Ciononostante, il film ha interessanti guizzi autoriali, specie nella prima parte, e diversi momenti divertenti. Peccato che la satira, se satira il regista svedese voleva fare, sia fiacca e trita. Peccato davvero. Gli ascensori salgono e non sono ascensori sociali, gli ultimi sono corruttibili come chiunque altro e l’ingenuità e la fiducia vera nel cambiamento muoiono come l’asino che tanto spaventava i naufraghi.

Resterà nella memoria degli spettatori il capitano ubriacone e stonato interpretato da Woody Harrelson, metafora di un’umanità allo sfacelo, incapace di uscire dalle polarizzazioni ideologiche che pure hanno rappresentato un dinamismo intellettuale rispetto al vuoto ‘piattume’ del pensiero dominante contemporaneo; la domanda fatale che Clementine fa a Winston “Amore, ma questa non è una delle nostre?”; resterà l’ ”In den wolken, Uli!” che sembra preludere a un qualche sviluppo narrativo meno scontato (che non arriva mai) e soprattutto resterà nel cuore il volto bellissimo di Charlbi Dean, morta per una infezione la scorsa estate a soli 32 anni.

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