di Roberta Lamonica
Vincitore della Palma d’oro alla 70esima edizione del Festival di Cannes, The Square (2017), del regista svedese Ruben Ostlund è un film ironico, sorprendente, altamente simbolico e a tratti sconcertante.
The Square è ‘un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri’. Questo l’intento filantropico dietro il lancio dell’opera che dovrà dare un impulso ulteriore al museo di arte contemporanea di cui Christian (un ottimo Claes Bang) è curatore a Stoccolma. E che l’idea dietro questa installazione sia in qualche modo ‘sovversiva e definitiva’ lo si capisce chiaramente dalla goffa tenacia con cui si eradica l’antica statua equestre simbolo di un’arte figurativa ormai senza alcun messaggio e di cui ‘Il Quadrato’ prende il posto. Il quadrato, simbolo di definizione e delimitazione, fa da cornice alla vita di Christian, intellettuale moderno che si compiace della posizione di potere dalla quale guarda il mondo, non consapevole dei limiti paradossali che il suo ruolo impone all’arte che propone e promuove e che si circonda di subalterni acquiescenti, patrocinatori inconsapevoli e adoranti ammiratori.Tutto ha un posto perfetto nella sua vita, fino a quando un incidente banale, il furto di portafogli e telefono, sposta la prospettiva e ridefinisce il punto di vista. E proprio la rottura dei limiti, la confusione e un sano, istintivo e primordiale desiderio di vendetta, spingono Christian a lasciare la sua Torre d’Avorio per scendere agli Inferi dei palazzoni popolari alla periferia di Stoccolma dove il suo orizzonte diventa assolutamente indistinto e caotico.
“Renderò la tua vita un caos”, minaccia il ragazzino dei palazzoni di periferia e non per il comportamento irragionevole tenuto dal curatore ma per aver infranto l’ordine stabilito delle cose.
The Square si può definire come una critica impietosa alla società occidentale tronfia e autoreferenziale e in particolare a un certo ambiente borghese che definisce gli standard del gusto e gli orientamenti culturali e artistici. E questa critica risulta tanto più efficace per il fatto di essere il film ambientato in Svezia, riconosciuto modello di evoluzione etica e progressista dei valori fondanti della civiltà occidentale. E invece anche in Svezia ci sono gli zingari e gli zingari sono colorati e ‘molesti’ come in ogni altra metropoli europea e l’intellettuale svedese dà loro dei soldi e compra loro del cibo fintanto che la sua confort zone non viene invasa e il suo mondo non viene scosso nelle piccole certezze nelle quali si culla.E allora l’unica possibilità di fronte al fallimento del modello perfetto e allo sbigottimento conseguente resta la deflagrazione o la regressione e una nietzschiana palingenesi reazionaria dell’umanità. Ma ogni palingenesi comporta una rinascita e in quest’opera nascita e infanzia assumono contorni desolanti. La nascita è totalmente negata come si deduce dalla battaglia per gettare il profilattico ingaggiata tra Christian e Anne. Il profilattico è conteso, teso, tirato per eliminare e disperdere il seme generatore di vita dalla cui perpetrazione Christian è terrorizzato. L’infanzia invece è distorta, manipolata: essa assume tratti isterici nel bambino che reclama la ‘sua’ giustizia, note di disorientamento nelle due figlie-pacco di Christian, carattere di orpello inutile nel neonato portato nelle riunioni di lavoro dal collaboratore del direttore e infine ha tragica funzione di agnello sacrificale nel ‘quadrato’ che avrebbe dovuto segnare il punto massimo di concettualizzazione del gusto estetico e artistico di un certo mondo e che in realtà si rivela un buco nero che con sé tutto trascina e annienta.
In quest’ottica acquista quindi un significato fortemente simbolico il gorilla che inaspettatamente compare nell’appartamento di Anne durante il suo incontro intimo con Christian e la sconvolgente performance di Terry Notary che spinge l’opera d’arte che egli stesso rappresenta oltre i limiti della finzione a invadere il mondo patinato e ingessato dell’alta borghesia svedese che comunque china il capo di fronte alla violenza della forza generatrice e primordiale che Notary in qualità di ‘primate’ incarna.
Östlund compie un’indagine etologica del campionario umano che ha a disposizione in cui non si possono non cogliere echi e suggestioni dalla ‘scimmia nuda’ di Desmond Morris.Curiosamente la centralità della figura materna cui Morris fa riferimento nel suo trattato divulgativo è totalmente assente nel film del regista svedese nell’ottica dell’impossibilità di una perpetrazione del genere umano secondo la prospettiva e il sistema di valori definiti da ‘The Square’. Solo nella commistione tra la pioggia che lava e rigenera e il pattume che lorda e delimita si intravede una vaga possibilità di rinascita.
Tra umana disumanità, isteriche recriminazioni, falsa cortesia, comici fraintendimenti e disorientanti scale a chiocciola si consuma la fine di ciò che si può ‘dire’ nell’arte e di ciò che si può vivere nella bolla alto borghese di cui Christian è un sommo rappresentante.
Con questo scopo Östlund protrae oltre i limiti la durata del suo film come ultimo omaggio allo sventurato protagonista della sua analisi sociale e antropologica, un uomo che non può più stare nel ‘quadrato’ perché solo fuori, solo spingendosi oltre i limiti può sperare di ritrovare la propria raison d’etre.