di Girolamo Di Noto

Tra i tanti registi del nostro cinema che hanno attinto senza riserve alla letteratura, va ricordato senz’altro Mauro Bolognini. Colto e preparato, ingiustamente considerato un mediocre imitatore di Visconti, lavorò per Moravia, Pratolini, Pasolini, Svevo, ma il suo primo grande lavoro tratto da un’opera letteraria fu Il bell’Antonio, dal romanzo di Vitaliano Brancati. Sceneggiato da Pasolini e Visentini e ambientato negli anni Cinquanta invece che nel periodo fascista come il libro, il film descrive la società siciliana dominata dalla figura virile d’un uomo improvvisamente messo in crisi dalla scoperta di essere impotente.
È la storia di Antonio Magnano (Marcello Mastroianni), giovane dotato di straordinaria bellezza che, preceduto dalla fama di dongiovanni, ma in realtà impotente, torna in Sicilia perché deve sposare Barbara (Claudia Cardinale). Il giovane se ne innamora perdutamente, ma quando si scopre, dopo un anno di matrimonio, che la moglie “è ancora signorina”, lo scandalo è inevitabile.

Bolognini è esemplare nel descrivere una società pettegola e primitiva, incurante della sensibilità altrui. Attorno alle vicissitudini di Antonio, dapprima considerato sciupafemmine, “colui che faceva sollevare lo sguardo a tutte le donne non appena metteva piede in chiesa”, poi deriso, fatto oggetto degli scrosci di risa e dalle maldicenze di chi gli sta attorno, si fa largo il ritratto di una società impietosa, schiava delle apparenze, basata in particolare sul valore del gallismo, ovvero l’ambizione erotica, spesso velleitaria quanto ossessiva, del Don Giovanni di provincia.

Sottoposto allo sguardo giudicante della società che misura il valore di un uomo nella capacità di farsi onore con una donna, Antonio incarna “l’essere da scansare”, diventando simbolo di una purezza che la società ripudia. Antonio agisce su uno scenario pubblico e la sua storia, nel bene e nel male, è soggetta agli implacabili giudizi della gente. Da questo punto di vista il protagonista è vittima di una società chiusa e feroce. La sua bellezza lo rende agli occhi degli altri all’inizio un implacabile seduttore, si porta dietro la fama di “tombeur des femmes”: i maschi logorati da un’inestinguibile sete sessuale lo prendono come modello, lo invidiano ma quando la verità viene a galla, quando è chiaro che Barbara “è tale e quale a come è uscita dalla mia casa”, la sensualità iniziale, l’ardore che gli sono state affibbiate si trasformano in pettegolezzo volgare: “E che ci campa a fari? Megghiu mortu! Megghiu mortu milli voti!”.

Nella società in cui vive Antonio non c’è posto per i veri sentimenti: tutto deve essere meccanico, a comando. Il matrimonio è contratto di doti, l’amore è “istigazione a procreare”. Uno dei personaggi del film che meglio incarna il gallismo e che esalta le esibizioni virili prima di ogni altra cosa è Alfio (Pierre Brasseur), il padre di Antonio. Dapprima fiero del figlio, orgoglioso e vanesio, il suo atteggiamento cambia nel corso del film e da incredulo si trasforma pian piano in un uomo che impreca contro il destino, quasi non riesca a capire come un Magnano non sappia “trovare un covo per il suo lepre”.

Bolognini riesce crudamente a mettere in luce il senso dell’onore di Alfio, un onore che è un suo marchio di fabbrica, che pervade tutta la sua vita, tutta la sua carriera: ” Sapete perché mi hanno fatto federale di Catania? Perché sono stato con nove donne in una notte! ” Se Antonio è l’emblema di un’adolescenza che non muore, Alfio rappresenta all’opposto la sensualità gretta e volgare, la Sicilia virile, la famiglia invadente, l’ingerenza della comunità nel rapporto di coppia. Alfio è il ritratto di un’Italia maschilista, avida di sessualità, ossessionata dalla prestanza, che Bolognini giustamente addita più farsesca che reale perché il più delle volte l’avventura era più fantasticata che realizzata, più lambiccata che goduta.

Le apparenze però non possono essere distrutte e Alfio è disposto pur di cancellare il disonore che ha infangato il nome dei Magnano. Emblematica è la scena in cui va a letto con una prostituta per provare a se stesso di essere uomo: è più interessato a lavare l’onta del disonore che a comprendere il dilemma del figlio. Antonio vive la sua situazione da solo, non può certo affidarsi a chi gli sta attorno: la madre Rosaria (superba l’interpretazione di Rina Morelli) si ritira in un contrito dolore e nei sensi di colpa, la moglie delusa non esiterà ad andare via, la suocera succube dei dettami religiosi lo disprezzerà.

Bolognini è abile nel tratteggiare una società ipocrita e nella sua impietosa satira sociale non risparmia né “i vecchi laidi onorevoli che si accompagnano a ragazzine nelle loro festicciole”, né i rappresentanti del clero, ammanicati con i ricchi di Catania, pronti ad assolvere o a condannare secondo la convenienza terrena. Da questo punto di vista la trasposizione del film di una trentina d’anni non incide in maniera così negativa come parte della critica ha voluto evidenziare.

È vero che il film rispetto al romanzo perde molto delle sue implicazioni socio-politiche, è vero che la Catania degli anni trenta imbavagliata dal fascismo non c’è più, ma è altrettanto vero che resta intatta l’ottusità di un mondo legato a preconcetti e tradizioni superstiziose, così come non cambia la descrizione della Sicilia dai paesaggi bellissimi in cui uomini d’onore rimangono intoccabili, così come resta immutata “l’impotenza” di essere cittadini liberi.

Significativa, in tal senso, la scena che vede Antonio che si guarda allo specchio mentre è al telefono con il cugino Edoardo: si chiede se sarà felice, è incapace di poter fare qualcosa per sé. Antonio è inerte, osserva immobile in strada l’ex moglie appena sposatasi con un altro, non si ribella, china la testa. Il suo addentrarsi nel cuore della città, accompagnato da un volto pensieroso, la dice tutta sulla frustrazione dell’uomo incompreso, costretto ad omologarsi – il finale è beffardo e malinconico allo stesso tempo – pur di non essere emarginato.

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