di Greta Boschetto

But i’m a cheerleader è un film del 1999 diretto da Jamie Babbit e interpretato da Natasha Lyonne, Clea Duvall, RuPaul, Mink Stole e altri.
Non è un semplice film, ma un vero e proprio cult moderno: divertente e leggero in maniera intelligente, questa pellicola parla di orientamento sessuale e identità di genere in modo ironico, usando gli stereotipi sull’omosessualità a proprio favore, come ad esempio l’uso accentuato dei colori per sottolineare la differenza di genere.

Megan è la tipica diciassettenne americana, la biondina della porta accanto, la fidanzata cheerleader del giocatore di football, ma ha delle stranezze che nessuno riesce a spiegarsi: non le piace baciare il suo fidanzato, è troppo gentile con le sue amiche, nel suo armadietto c’è solo la foto di una ragazza, è una fan di Melissa Erheridge e, udite udite, è vegetariana. I suoi genitori ed i suoi amici sono convinti che non è semplicemente una ragazza un po’ naïf ma che (e hanno ragione) è lesbica: l’unica soluzione a questo dramma è di mandarla in un campo di riabilitazione per giovani omosessuali, chiamato “True Direction”, gestito da Mary Brown, aiutata dall’ex-gay Mike (RuPaul) e dal figlio Rock, dalla dubbia sessualità neanche troppo nascosta.

Il programma del campo si basa su un percorso basato su 5 fasi: ammettere la propria omosessualità, riconoscersi nel proprio genere tramite lavori ad esso correlati (lavori domestici per le femmine, sport e lavori pesanti per i maschi), terapia familiare, dimistificazione del sesso opposto e simulazione di un rapporto sessuale con un membro del genere “opposto”.

Nel corso di questa permanenza forzata, come potrebbero non nascere amicizie e nuovi amori?
Jamie Babbiet dà vita a una pellicola che parla di argomenti seri in maniera finalmente ironica, discostandosi dalla tradizione cinematografica, soprattutto anni 90, che affrontava tematiche lgbtq+ presentando sempre opere piene di drammi, suicidi, amori impossibili.

Se in passato le relazioni lesbiche nel cinema erano sempre rappresentate o come un sollazzo per gli uomini eterosessuali o, in generale l’omosessualità, come una devianza (parola tornata di moda recentemente) dovuta a qualche trauma, negli anni ‘90 si è iniziato a trattare i temi lgbtq in maniera meno stereotipata ma quasi sempre drammatica, senza fornire ai giovani cinefili un film che potesse trattare certe tematiche facendo anche divertire gli spettatori.

La regista di questa pellicola riesce invece, finalmente, a creare un piccolo miracolo della comicità, affrontando un dramma che ancora oggi esiste, ovvero le terapie di conversione, purtroppo ancora legali in molti paesi (anche in Italia non c’è nessuna legge che punisce chi tenta di modificare l’orientamento sessuale di una persona, facendo ricorso a teorie pseudoscientifiche, ma anche a preghiere, esorcismi, ipnosi, ormoni, percosse, privazione del cibo ecc).

Un tripudio di colori e momenti “weirdo”che mischiati insieme creano un milkshake rosa shocking che ha come ingredienti Breakfast Club, Pretty in Pink e Barbie, ma in salsa John Waters: Jamie Babbit, con una sensibilità pop di rara grazia e acume, riesce a toccare corde di serietà e grandezza artistica a cui tutte le persone queer sono ancora davvero grate.

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