– di Andrea Lilli

Sappiamo che in tema di rapporti di coppia e di violenza sulle donne il privato è inestricabilmente politico, ma la bellezza di questo film emerge meglio se, almeno durante la sua visione, facciamo finta di non sapere cosa stia succedendo oggi in Iran. Il suggerimento è di evitare facili riferimenti immediati e di metterci a guardarlo politicamente inconsapevoli, ignari della triste cronaca attuale. Rimandate ai titoli di coda le connessioni sociologiche, apprezzeremo dunque meglio l’abilità del regista nel disegnare con freddezza e insieme passione i personaggi – tutti, anche quelli minori – di questa storia che potrebbe succedere ovunque, seppure con sfumature diverse. Astraendoci per due ore dagli orrori delle piazze e dalle prigioni iraniane, vedremo meglio l’intelligenza con cui Asghar Farhadi riesce a tenerci col fiato sospeso, ad inchiodarci mentre esplora paziente e imprevedibile le umane contraddizioni di individui comuni, universali, che potremmo essere anche noi, cittadini di un Paese un po’ più democratico: tale è la sua precisione chirurgica nell’estrarre ed esporre uno dopo l’altro i nodi interiori sul rettangolo, con guanti asettici, imparziali, quasi scientificamente. Come del resto aveva già fatto in “Una separazione” (2011), anch’esso premio Oscar al miglior film straniero.
Precisione quasi scientifica, perché stavolta nell’operazione resta un’impurità, per fortuna. Una faziosità partigiana, empatica, che la meticolosa sceneggiatura non riesce ad annullare del tutto. Farhadi dirige da arbitro imparziale il gioco dei suoi attori (bravissimi) assumendo un ruolo di mero narratore, e quasi ce la fa a non schierarsi, a non sbilanciarsi mai verso una delle tante possibili morali pronte a scattare come tagliole, secondo la mutevole sensibilità di ogni spettatore. Ma alla fine cede al suo sentire, e rivela maggior rispetto per le contraddizioni della donna, anche se talvolta incomprensibili, fra le tante vivisezionate ne “Il cliente” – thriller paradossale in cui il protagonista dinamico è invece un uomo, e nemmeno quello cui allude il titolo: Farhadi ne condivide il travaglio di satellite inquieto, ma il centro focale intorno al quale tutto si muove, il corpo ferito e la dignità calpestata sono quelli di lei. E Farhadi difende lei, più di quanto la comprenda, e malgrado comprenda totalmente il comportamento di lui.

Lei si chiama Rana, lui Emad, sono due giovani sposi, attori nella stessa compagnia teatrale. Li vedremo più volte mentre lavorano alla messa in scena di “Morte di un commesso viaggiatore”, da cui il titolo originale di questo film, “Il venditore” – sintomatica la scelta della traduzione italiana: un punto di vista differente (il venditore è cliente di una prostituta) ma complementare, in uno stesso mondo comunque dominato dal commercio, dai soldi come valore principale, il che è uno dei cardini tematici del dramma di Arthur Miller.
Emad e Rana devono abbandonare con urgenza il palazzo in cui vivono, reso pericolante da grossolani lavori di costruzione di un nuovo edificio. A Teheran c’è troppa fretta di edificare, il mercato delle case è un ottimo business, non si trovano facilmente appartamenti in affitto, dunque la coppia accetta di buon grado l’offerta di un superattico di proprietà del loro amico Babak, un altro attore del gruppo.

Peccato, però, che la precedente inquilina abbia lasciato troppe tracce della sua esistenza: oggetti personali, visitatori abituali. I quali magari non sanno ancora che se n’è andata. Uno di loro al citofono viene scambiato da Rana per suo marito, lo fa entrare; quando si accorge dell’errore è troppo tardi. Viene commessa una violenza, non si saprà mai con certezza quale ma si intuisce, Rana se ne vergogna fino all’amnesia o al mutismo, e comunque Emad parte all’inseguimento solitario della verità, del colpevole e della vendetta. Non affida tali incombenze alla Polizia, ad una giustizia istituzionale che nemmeno Rana, nemmeno i vicini di casa considerano affidabile.
Il film diventa un vero e proprio thriller, un revenge movie con sottili risvolti psicologici che, dei due protagonisti, rivelano in progressione aspetti prima nascosti a loro stessi. Emad, che è anche un insegnante di metodi non tradizionali, si trasforma in giustiziere fai-da-te cinico e spietato. Quando redarguisce uno dei suoi studenti lo minaccia con un “fa’ venire a colloquio tuo padre” che, insieme al reputarsi di diritto il legittimo e unico interprete delle conseguenze del torto subito dalla moglie, non importa cosa la moglie reputi giusto fare, la dice lunga su una certa visione (magari inconscia) del rapporto di potere tra uomo e donna. Rana, paralizzata dal trauma della violenza, da un malriposto senso di vergogna e di colpa, dalla sfiducia nella giustizia, invece tende pericolosamente a una profonda depressione. Tramortita da una realtà che non immaginava così vicina e feroce, a un certo punto non riesce più a recitare. La storia prende sempre più ritmo e quota, la camera a spalla segue sempre più da vicino i percorsi destinati a convergere verso la resa dei conti, fino al drammatico finale, che tuttavia resta aperto – ad una quantità di riflessioni.

La maestria di Farhadi sta nel mantenere alta la tensione non solo durante i dialoghi e l’azione principale, ma anche nelle divagazioni ambientali e nelle eleganti citazioni (la messa in scena del dramma di Miller, la comica proiezione a scuola di un classico del cinema iraniano) così come negli inserti dei personaggi minori (gli attori della compagnia, il bambino di un’attrice, gli studenti, i vicini di casa, i parenti del colpevole) e nelle frecciate ai censori, nemici principali del regista iraniano. Formatosi a teatro, Farhadi mette a frutto l’esperienza sul palcoscenico costruendo un cinema realistico che non si serve di effetti speciali, ma sa come catturare lo sguardo grazie a un uso sapiente di dialoghi e silenzi ben dosati, di sguardi affilati ed eloquenti, di movimenti di macchina precisi, di prospettive differenti e allusive, di un montaggio sobrio e incalzante.
Nel 2016, anno della scomparsa del suo maestro Abbas Kiarostami, Farhadi vinceva con questo film due premi a Cannes: migliore sceneggiatura e miglior attore (Shahab Hosseini), cui si aggiunse nel 2017 l’Oscar al miglior film straniero; ma né il regista, né gli attori andarono alla cerimonia di consegna a Los Angeles, per protestare contro il divieto di ingresso deciso dall’allora presidente Trump contro i cittadini provenienti dall’Iran o da altri Paesi a maggioranza musulmana.
Oggi Farhadi protesta contro il proprio governo per la repressione della libertà di espressione e in particolare per l’arresto della sua attrice favorita. Taraneh Alidoosti, l’interprete di Rana ne “Il cliente”, che ha girato ben quattro dei nove lungometraggi di Farhadi, è stata infatti presa nella sua casa di Teheran il 17 dicembre scorso e da allora è detenuta nel famigerato carcere di Evin, luogo di tortura ormai sovraffollato di artisti, intellettuali, studenti oppositori del regime teocratico-patriarcale iraniano.
Le sue colpe: essersi apertamente dichiarata femminista, rivendicare i diritti delle donne, sostenere le proteste per l’assassinio di Mahsa Amini, ragazza curda massacrata il 16 settembre dalla cosiddetta Polizia della Moralità per aver trascurato l’obbligo del velo. Il 9 novembre Taraneh Alidoosti aveva postato sui social una foto in cui appariva senza velo con un cartello dove era scritto “Donna, Vita, Libertà”, lo slogan che, negli ultimi quattro mesi di manifestazioni antigovernative, dalle regioni curde si è esteso a tutto l’Iran e riassume le coordinate di un movimento rivoluzionario che sembra ormai inarrestabile, malgrado la brutale repressione di chi nella prassi si riconosce nella triade opposta “Uomo, Morte, Oppressione”. La voce del regista, da sempre critico nei confronti del governo iraniano ma ancora tollerato a causa della sua fama internazionale, si è dunque unita a quelle che da tutto il mondo del cinema chiedono il rilascio di Taraneh Alidoosti e la libertà di espressione per ogni cineasta.
P.S.: Il 4 gennaio Taraneh Alidoosti è stata rilasciata dal carcere, dopo 19 giorni, grazie al pagamento di una cauzione di 225mila euro.

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