di Girolamo Di Noto

Se c’è un regista che si è sempre distinto, nella sua carriera prolifica, per la capacità di “scrivere” con le immagini, questo è stato senz’altro Claude Chabrol. Scomparso nel 2010, una folta filmografia alle spalle, Chabrol, per sua stessa ammissione, ha sempre avuto l’ambizione di fare non tanto “film con un intrigo che si costruisce”, quanto quella di “avere un intrigo che si distrugge”. Il senso del cinema di Chabrol risiede più nella forma e nella costruzione che nei contenuti. Così accade in uno dei suoi film più belli e conosciuti, Il tagliagole.

È la storia del timido e tenero amore tra il macellaio Popaul (Jean Yanne) ed Hélène (Stéphane Audran), la maestrina di un paese del Perigord messo in subbuglio da alcuni feroci delitti.
Al regista francese non interessano gli omicidi in sé. I delitti avvengono fuori campo, le indagini restano sullo sfondo. A Chabrol non sembra tanto interessare l’idea di dover fornire dei precisi indizi, che possano agevolare nella risoluzione del giallo, quanto piuttosto scavare nella psiche dei personaggi, rappresentarli nelle loro infinite sfaccettature e movenze.

Quando si guarda un film di Chabrol, quello che resta allo spettatore è sempre “qualcosa d’altro”, qualcosa che si nasconde dietro esistenze apparentemente privilegiate e serene. Impietoso nel descrivere le pieghe più buie dell’animo umano, sottile ed elegante nel mostrare, anche attraverso silenzi, un’atmosfera algida e sospesa, apparentemente tranquilla, Chabrol ha quasi sempre ambientato le sue opere in una cittadina di provincia dall’aspetto lindo e sonnacchioso.

“La città è rumorosa e caotica, va bene per l’incomunicabilitá di Antonioni, io voglio persone che si parlano, si scontrano, sanno capire il significato dei silenzi “. Come Balzac, anche Chabrol ha saputo dare un quadro dettagliato della società del suo tempo, soffermandosi sulle ipocrisie e le ossessioni della provincia, scandagliando con sguardo sottile le ambiguità delle persone, regalandoci dei ritratti memorabili al vetriolo di una piccola borghesia analizzata al microscopio. Hélène e Popaul danno vita ad uno struggente melodramma, in cui l’ambiguità del loro rapporto, ammalia e sconcerta, intriga e dà brividi.

Il tagliagole è l’incontro di due solitudini, emotivamente instabili, sia pure in modo diverso. L’uomo ha conosciuto gli orrori della guerra, ha vissuto per quindici anni in Indocina, dove ha assistito a dolori inenarrabili. È timido, un gentile spasimante, si stupisce che Hélène possa fumare per strada, per la prima volta sembra aver trovato l’amore. Hélène è, come tutte le donne chabroliane apparse sullo schermo, da quelle ‘disturbate’ impersonate dalla Huppert a quelle interpretate dall’altra musa del regista, nonché ex moglie, Stéphane Audran, un inquietante e misterioso fascio di contraddizioni: ha creato intorno a sé uno scudo protettivo basato sulla razionalità, preferisce vivere sola perché ha paura di ritornare a innamorarsi e, in seguito ad una delusione d’amore, soffoca ogni pulsione di vita.

La sua bellezza algida, il suo sguardo da sfinge procurano fascino e distanza, è donna che dona una passione devastante che travolge l’uomo, è salvezza, speranza per l’uomo di sfuggire dall’inferno. Significativa è la scena in cui Chabrol la ritrae sola nel suo appartamento collocato sopra nella scuola dove insegna. Vive in una specie di torre da dove può vedere dall’alto il villaggio.

Oltrepassando i confini del genere, Chabrol preferisce non caricare il film di scene cruenti, ma ama disseminare numerose simbologie attraverso una straordinaria ricchezza di dettagli. La finestra, ad esempio, attraverso cui Hélène guarda dall’alto la provincia circostante, diventa la forma simbolica della separazione tra lei e il mondo. Il suo sguardo assorto, la sua glaciale indifferenza esteriore sembrano come attendere il compimento di un destino di scacco, di perdita. Per non parlare dell’accendino perso da Popaul e ritrovato da Hélène che ha molti richiami hitchochiani, in particolare il film L’altro uomo, o l’anticipazione del dramma come nel taglio del gigot, nella scena iniziale del banchetto di nozze dove si incontrano i due protagonisti, in cui si vede il dettaglio del coltello che affonda nell’arrosto del sangue. Di sangue ne scorre poco, ma di rosso è impregnato in diversi momenti il film.

La ” pioggia rossa ” che bagna la bambina durante un picnic organizzato dalla maestra con la classe, le ciliegie sotto spirito mangiate dai due protagonisti, il pulsante rosso dell’ascensore dell’ospedale nel palpitante finale, che lampeggia a intermittenza come gli ultimi battiti del cuore dell’assassino, la morte dei sogni che coincide con lo spegnimento del bottone rosso.

Chabrol ha la virtù di raccontare la complessità degli esseri umani nel modo più semplice possibile ed è abile nel mettere in risalto il contrasto tra i truci omicidi e il contesto ordinario in cui hanno luogo. Al di là del paragone con Balzac per la finezza del suo sguardo sociale, in Chabrol è anche presente l’humour di Rabelais, come nella scena in cui Popaul offre, per giunta davanti agli alunni, il cosciotto d’agnello a Hélène, avvolto come se fosse un bouquet di fiori.

Osservatore acuto della società moderna, immergendo la storia nella quotidianità più consueta, Chabrol ha saputo offrirci il racconto di un amore impossibile, alternando tensione e seduzione, matrimoni e funerali, il bianco impermeabile di Hélène, l’imprevista dissolvenza in nero che risolve il mistero. Amore e morte raccontati da un maestro del cinema, un cinema di intrighi psicologici, dallo stile misurato e controllato, per nulla invasivo, di disarmante semplicità senza essere superficiale, di chiara e limpida poesia.

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