di Nicole Cherubini

“I film sono sogni che non dimenticherai mai”
Un bambino, solo al buio, accosta le mani per ricevere un fascio di luce: ma non è una luce qualsiasi, è una luce in cui scorrono immagini impregnate di una storia. “E’ il cinema, bellezza!”direbbe qualcuno, e il bambino non può fare a meno di spalancare gli occhi davanti a quella meraviglia che diventerà l’ossessione di una vita. E’ il 1952 e il piccolo Sammy ha da poco assistito al primo spettacolo cinematografico della sua vita. I suoi genitori infatti, l’hanno portato a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille: il violento schianto su di una linea ferroviaria si imprimerà a fuoco nella sua mente, facendo nascere il desiderio di creare lui stesso quelle strabilianti immagini.
A 76 anni, incoronato sia dal box office (soprattutto negli anni ’80) che dalla critica (solo “The Fabelmans” si è aggiudicato due Golden Globes ed è candidato all’Oscar), Spielberg si concede di mettere in scena la storia della sua formazione, della sua vocazione per il cinema e della sua famiglia, indissolubilmente intrecciate.

Benchè il regista abbia voluto fare un ritratto fedele fin nei più piccoli dettagli (dal decor degli interni all’abbigliamento e ai tagli dei capelli dei personaggi) ne ha trasfigurato il nome, ed è con il nome di “Fabelmans” (“gli uomini delle fiabe) con cui l’autore mette in scena il proprio vissuto: quello di un ragazzino come tanti, figlio di una coppia ebrea piccolo-borghese nell’America degli anni ’50. All’inizio del film, infatti, troviamo il piccolo Sammy (Gabriel LaBelle), le sue 2 sorelle, i genitori Burt e Mitzi (Paul Dano e Michelle Williams) a vivere in una villetta a Phoenix, Arizona. Accesasi in lui la passione per la macchina da presa, Sammy passerà l’infanzia e l’adolescenza filmando i genitori, le sorelle e gli amici in divertenti home movies (mummie improvvisate con la carta igienica, mostri improbabili che sbucano fuori dagli armadi e quant’altro), ispirandosi in seguito ai grandi generi americani, il western e i film di guerra.

Questa crescente passione per la 7° arte viene accettata dai due genitori, anche se in modo diverso: il pragmatico programmatore Burt e l’ex-pianista Mitzi. Queste due figure non sono affatto di contorno, né nella narrazione né nella vita del regista (che infatti dedica a loro il film), ma rappresentano due poli opposti perennemente in contrasto dentro e fuori di Sammy. Quindi da una parte troviamo un padre affettuoso ma razionale, che spera che il figlio studi e si faccia una carriera, dall’altra una madre che vorrebbe far seguire al figlio quella vocazione artistica che lei ha abbandonato. Un po’ come accadeva al bambino protagonista di “The tree of life” (anche se con un approccio molto meno universale e spirituale), i due coniugi rappresentano il conflitto interiore di Sammy: realizzare il proprio sogno o seguire la corrente.
Il regista guida abilmente lo spettatore nelle vicende quotidiane di questa semplice famiglia ebrea (la nascita della terza figlia, la promozione del padre, il festeggiare Hanukkah) facendolo sentire “a casa,” partecipe; forse è proprio per poter ottenere questa intimità che Spielberg ha posto il focus della narrazione solo sulla famiglia e pochi altri personaggi (lo “zio” Benny, la nonna materna, lo zio Boris), lasciando in disparte tutto ciò che concerne il contesto sociale dell’epoca.

Uno degli aspetti più apprezzabili e che danno ritmo al film sono quelli in cui il regista mostra come realizzava i suoi filmini da dilettante. E’ infatti evidente sia il divertimento di Spielberg che dei giovani attori nell’improvvisarsi improbabili sceriffi e banditi; con le immancabili damsels in distress (le sorelle di Sammy) nella solita diligenza assaltata.
O ancora il war movie,uno dei primi in cui il giovane regista disponeva di un numero cospicuo di comparse: orde di ragazzini camuffati da soldati che fingevano di affrontarsi nel deserto dell’Arizona (all’occorrenza spremendosi addosso sacchetti di sangue finto), mentre Sammy filmava il tutto con una cinepresa montata su di una vecchia carrozzina a mo’ di dolly. E’ proprio durante la realizzazione di questo film che il protagonista spiega ad un attore (un truce ragazzotto) come interpretare un ruolo, con il risultato che entrambi si commuovono, perché hanno entrambi empatizzato con un personaggio.

Oltre all’ottima direzione del cast, va un plauso in particolare ai due attori che interpretano Burt e Mitzi, i perni della sua formazione: da una parte un Paul Dano apparentemente rigido, ma che cerca in tutti i modi di sostenere la famiglia e l’amatissima moglie; dall’altra una Michelle Williams fragile e luminosa al tempo stesso, dal temperamento artistico e instabile.
Una delle scene memorabili riguarda proprio la danza della madre durante una gita in campeggio: di notte, illuminata solo dai fari della macchina, Mitzi volteggia in camicia da notte con la grazia di una creatura ultraterrena, mentre il marito e lo zio Benny la guardano estasiati. Anche in quel momento magico, sospeso, Sammy sarà invitato a riprendere la scena, a catturarne l’incanto.

Sarebbe riduttivo definire “The Fabelmans” solo come “commovente:” è un film che parla di sogni, di utopie, ma anche della loro fragilità. Così questa bella famigliola, trainata da un padre in costante ascesa professionale e da un maggiore benessere economico, finisce per disgregarsi. Alla separazione imminente dei genitori si aggiunge pure l’ulteriore trasloco in California e il bullismo antisemita dei biondissimi e atletici compagni di scuola…
Le critiche mosse al film, che ovviamente non riguardano il lato tecnico (siamo di fronte ad un film di alto livello su quell’aspetto) riguardano il tentativo ,che Spielberg avrebbe fatto, di confezionare una pellicola volutamente nostalgica e strappalacrime solo con l’intento di autocelebrarsi. Altri trovano che l’utilizzo del divorzio dei genitori come fattore traumatico del protagonista sia fin troppo abusato: questo è senz’altro vero, se non fosse che in questo caso è un avvenimento reale, non scritto appositamente per la sceneggiatura, e che si riferisce alla società degli anni ’50, ben diversa da quella odierna.

Chiaramente “The fabelmans” è un film dal respiro classico fin nel midollo, e che intende anche omaggiare chi quel cinema l’ha portato a livelli altissimi: oltre al già citato Cecil B. De Mille (un treno, il suo, che non può non rimandare al mitico “L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat” dei Lumiere, da cui tutto iniziò) troviamo “L’uomo che uccise Liberty Valance” diretto da John Ford. Proprio lui, presentato come “Il più grande regista di tutti i tempi,”appare al giovane Spielberg come un burbero mentore, interpretato da un famoso regista contemporaneo in un gustoso cameo.
Chi poi volesse obiettare sul fatto che un film autobiografico sia il segno di una vena artistica ormai esaurita, bisogna considerare che Spielberg aveva già firmato il suo remake di “West Side Story” nel 2021. Lo stesso Scorsese aveva omaggiato il cinema delle origini ispirandosi ad un libro illustrato con il suo “Hugo Cabret”nel 2011. Anche Sam Mendes, con il suo “Empire of light” sceglie un cinema come punto di vista da cui guardare ad un paese, l’Inghilterra, scosso da recessione e razzismo. E’ come se i registi stessero riflettendo sulla propria vita e sulla vita della settima arte per fare il punto; per capire se tra lo strapotere delle piattaforme, il prevalere delle serie tv sui film e la crisi della sale, il cinema del futuro potrà ancora regalare meraviglia o sarà solo deputato all’intrattenimento.

Per concludere, un’ultima riflessione su di una scena de “The Fabelmans.” Sammy è solo nella sua stanza, e sta montando il filmino della gita in campeggio. Proiettando la pellicola, poi osservandone attentamente i fotogrammi, per la prima volta nella sua vita nota alcuni sguardi e sorrisi tra sua madre e lo zio Benny (Seth Rogen) che non aveva mai notato prima. Dopo aver passato la vita a filmare i suoi cari, non li aveva mai “visti” veramente, e solo in quel momento, sulla celluloide, era evidente. Anche il chiarimento con la madre avverrà tempo dopo mostrandole quel filmino: non con le parole, ma con le immagini le spieghera’ la ragione del suo risentimento. Questo è l’incanto e il limite del cinema: nei film può accadere di tutto, mentre la realtà non si può “dirigere” e sfugge al nostro controllo. D’altronde era stato Truffaut, che per Spielberg si era prestato ad un memorabile cameo, a dire, in “Effetto notte”:”I film sono più armoniosi della vita, Alphonse: non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come i treni, capisci? Come i treni nella notte…”)

“The Fabelmans” è un film che intende omaggiare il cinema del nostro passato prossimo, non in modo polveroso o stantio, ma celebrando quello stupore che ormai 40 anni fa provammo nel vedere dei ragazzini volare in sella alle loro bici per salvare un tenero alieno.
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