di Laura Sabatino

Più grande è il crimine più sarà difficile provarlo, ma se il delitto è “di stato” per una democrazia è necessario farlo come parte della sua stessa essenza: questa è l’idea centrale di “Argentina, 1985” di Santiago Mitre, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e appena entrato nella cinquina dei candidati agli Oscar come miglior film straniero.

Il film si apre con una didascalia che contestualizza il periodo storico – nel 1983 l’Argentina ha ritrovato la democrazia dopo sette anni di dittatura militare e il neoeletto presidente Alfonsin prova a fare i conti con le ferite ancora fresche del passato – mentre scorrono le immagini di un uomo che segue una giovane donna e il suo amante. L’uomo è il procuratore Julio Strassera, interpretato da Ricardo Darín, e la giovane donna è la sua primogenita che lui vorrebbe proteggere da una relazione pericolosa. Forse l’amante è coinvolto col vecchio regime, forse frequenta la ragazza allo scopo di carpirle informazioni o di usarla come arma di ricatto (invece si rivelerà solo un banale uomo sposato). È il perfetto esempio di come il film racconti la sua storia alternando affari di famiglia e ruolo pubblico di Strassera, investito della responsabilità di portare in tribunale i vertici della dittatura militare appena deposta per un processo vero e proprio, non militare come loro avrebbero desiderato, ma civile.

Il privato, grazie ai caratteri forti di moglie, amici e figli di Strassera, dona al film leggerezza anche nei momenti più difficili, di fronte alle intimidazioni di chi è rimasto fedele al vecchio regime e vuole impedire il processo. E per contrasto, questa leggerezza aumenta l’intensità dei fatti tragici che vengono rievocati in aula. La risonanza di parole acuminate come pietre.
Si tratta della Norimberga argentina, il momento in cui per la prima volta vennero pubblicamente messi sotto accusa il tenente generale Videla e i suoi compari, a cominciare dal generale dell’aviazione Orlando Agosti, dall’ammiraglio di marina Eduardo Massera e dal generale dell’esercito Leopoldo Galtieri, per le innumerevoli violenze, rapimenti, torture, omicidi commessi contro gli oppositori del regime che nel 1976 aveva rovesciato il governo di Isabela Peron.

I generali declinano ogni accusa definendo quegli atti eccessi di cui non erano a conoscenza, parte inevitabile della lotta alla guerriglia peronista e socialista. Invece si trattava di un sistema che aveva sospeso legge e processi, non si curava minimamente dell’accertamento della verità, e di conseguenza consentiva e incentivava abusi e bestialità dei militari contro gli oppositori. Veri o presunti non faceva differenza.

Ma provarlo è complicato, si parla di migliaia e migliaia di casi. I testimoni vanno trovati, sentiti, talvolta convinti, e Strassera e il suo giovane procuratore aggiunto Ocampo hanno solo cinque mesi prima che il processo inizi e pochi mezzi a disposizione, oltre a essere ostacolati dalle minacce dei fascisti e dalla freddezza di una parte del popolo che non vuole vedere la verità, per incredulità, vergogna o immediata rimozione.
L’estrema risorsa è ricorrere per le investigazioni a una squadra di giovani studenti idealisti e al tempo stesso pragmatici, che percorrono in lungo e largo l’immenso paese. Ascoltano, registrano, alla fine raccolgono ben settecento testimonianze: la donna che ha partorito davanti ai suoi carcerieri e a cui è stato impedito di stringere a sé la sua bambina, ma che nuda è stata costretta a fare le pulizie; la madre che si è vista rapire la figlia e ancora si illude che sia viva; il ragazzo che ha dovuto dire addio al suo amore; la ragazza che ha denunciato la sorella credendo di salvarla e invece l’ha condannata a morte.

Il film è un procedural che si svolge tra le stanze della procura, quelle delle case borghesi di Strassera e Ocampo, e l’aula del tribunale, affidando tutto alla forza delle parole e delle testimonianze, fino all’arringa finale. Non è un’esposizione all’americana. Il procuratore la legge seduto al suo tavolino, con affianco Ocampo che lo fissa standogli quasi addosso perché lo spazio è poco, mentre i generali sono schierati alla loro sinistra. Tra loro l’unico a non indossare una divisa è Videla, bassino, pallido e con i baffetti, perfetta incarnazione della banalità del male. Tiene in mano ostentatamente una bibbia senza mai degnare il procuratore di uno sguardo.

Ricardo Darín non è Kevin Costner in JFK che si muove, gesticola e commuove. Non c’è un grande palcoscenico su cui agire. Tutto è costretto e sotto dimensionato, secondo procedura argentina, eppure il peso delle parole colpisce lo spettatore profondamente nella successione di primi piani di parenti, giudici, procuratori e imputati. Strassera chiude la sua arringa scusandosi per la mancanza di originalità con due parole che scatenano l’applauso e la commozione in aula: “nunca mas”.
“Mai più”

Il male è lì in prima fila, a pochi centimetri dal procuratore e dai parenti delle persone scomparse, dalle madri che tornano a indossare con orgoglio i loro fazzoletti simbolo di protesta, dalle vittime di tortura che sono riuscite a sopravvivere. Il male è arrogante e indifferente. E proprio per questo non va taciuto, non va coperto dal silenzio, non va dimenticato, ma al contrario indagato e descritto in ogni dettaglio, in ogni sordida procedura. L’unico modo – suggerisce il film – perché la giovane democrazia sopravviva espellendolo dal proprio sistema, e forse non si ripeta mai più.
Rispondi