di Girolamo Di Noto

Ci sono film che, al di là della loro bellezza stilistica e della forza magnetica che emanano, possono entrare nella storia, nell’immaginario collettivo per restare, fino a farsi mito, anche per una singola scena, un’iconica sequenza. Ispirato ad un libro di Nicholas Pileggi, Quei bravi ragazzi di Scorsese contiene uno dei duetti memorabili della storia del cinema, che vede protagonisti da un lato il compianto Ray Liotta che interpreta il gangster pentito Henry Hill, e dall’altro il carismatico e impulsivo malavitoso Tommy De Vito a cui presta il volto, le gesta, la voce lo straordinario Joe Pesci, la cui interpretazione sublime gli è valsa un Oscar come attore non protagonista.

Mentre i due si stanno divertendo in un locale, ad un certo punto Henry definisce Tommy “buffo “. Tommy sembra molto offeso dal termine usato da Henry: “Perché dici che sono buffo?” “Beh – dice Henry – sei buffo perché racconti le storie in modo buffo”. “Buffo come? Come un pagliaccio?”. Le risate a questo punto vengono soffocate dal gelo del silenzio, da un momento di imbarazzo fino a quando non si capisce che in realtà è solo una presa in giro di Tommy nei confronti di Henry.

Ebbene, perché questa scena è diventata cult? Al di là dell’essere recitato in modo impeccabile e con i tempi giusti, l’episodio era accaduto veramente a Joe Pesci. Un giorno, mentre lavorava in un ristorante, avrebbe detto ad un cliente, poi rivelatosi un mafioso: “Però…sei buffo, sei divertente”. Il complimento ottenne una reazione inaspettata e tutt’altro che entusiasta, ma fortunatamente non ebbe conseguenze negative sul malcapitato futuro attore. Pesci poi raccontò l’aneddoto a Scorsese, che rimase così divertito che decise di inserirlo nel film. Quando venne girata la scena, solo Liotta e Pesci erano a conoscenza del dialogo, mentre tutti gli altri non sapevano veramente se stavano facendo sul serio o se stavano recitando, rendendo il tutto ancora più realistico.
La scena, inoltre, rivela in maniera sintetica ed efficace, come nel mondo della malavita ci volesse poco per essere uccisi. In un mondo di gangster spietati persino la suscettibilità potrebbe rivelarsi un’arma letale. Si è sempre su un palcoscenico, ma non si può sbagliare una mossa né dire una parola fuori posto.“Un momento te ne stai lì a ridere e a scherzare, e un momento puoi essere ammazzato “. C’è dentro quella scena tutto il loro stile di vita.

Folgorante fin dal prologo, con la voce off di Henry che sottolinea che “fin dall’età della ragione aveva deciso che da grande avrei fatto il gangster”, Quei bravi ragazzi racconta trent’anni di omicidi, contrabbando, spaccio di droga, rapine, carcere, ma anche pranzi, feste, mogli, figli, amanti: a raccontarli è Henry Hill, gangster spietato, dalla fisicità statuaria, risata sguaiata e ammalianti occhi blu, affascinato dalla vita di quei loschi signori che vede ogni giorno da quando era bambino nel quartiere popolare di Brownsville, a New York.

Aspira ad essere rispettato. Non vuole fare la coda quando la mamma lo manda a comprare il pane. Vuol far parte di quei privilegiati che si permettono impunemente di parcheggiare davanti ad un idrante. L’incontro con Paul Cicero (Paul Sorvino), rappresentante locale di una delle cinque famiglie della mafia newyorchese, che lo prende sotto la sua protezione, costituirà la sua prima ‘educazione’. Poi seguirà l’escalation della violenza con James Conway (Robert de Niro), maestro dei furti ai camion negli aeroporti e soprattutto con Tommy De Vito, tipo strambo e quasi psicopatico, dagli incontrollabili accessi di furore.
Quei bravi ragazzi è un’opera magistrale, giustamente considerato un trattato sulla cultura criminale, un “documentario messo in scena”, perché, a differenza del Padrino di Coppola, racconta la mafia vista dal basso e nel quotidiano, con gli occhi di manovali che non diventeranno mai Padrini. Quel che viene fuori è la vita quotidiana, non solo le sparatorie. Vediamo i luoghi che frequentano, i momenti di svago, i vizi e le nevrosi di persone normali, che “si ammazzano per il lavoro” e che, come dice amaramente Henry Hill fuori campo, “tutto questo può durare al massimo dieci anni”.

Henry Hill vuole essere qualcuno in un contesto ambientale schiacciato dall’anonimato, vuole cercare ogni mezzo “per non restare una nullità e vivere tutta la vita come uno stronzo qualsiasi”. È una specie di guida che conduce lo spettatore in un mondo popolato da persone che fanno del sangue il loro unico codice, da individui trasfigurati dalla loro avidità, senza scrupoli, violenti che vivono di violenza.
Quando Henry si accorgerà dell’inferno in cui è caduto, tutto scoppierà. All’inizio il mondo proibito viene visto con gli occhi fanciulleschi di un sognatore, poi da quello della vittima che finisce per soffocarci dentro. Il mondo proibito dentro cui è sprofondato è un inferno dove ogni legge sembra essere ignorata, dove ogni codice morale lascia il posto alla pulsione di violenza.

Scorsese è straordinario nell’offrire uno sguardo antropologico sulla vita di tutti i giorni di questi “bravi ragazzi”, che ammazzano per un nonnulla, personaggi senz’anima o, per essere più precisi, che avevano un’anima, ma li vediamo mentre la perdono.
L’unicità di quest’opera sta nell’essere riusciti a mescolare quotidianità e delitti, cocaina e ragù, aspetti della vita di tutti i giorni e efferate scene di violenza in un flusso di immagini senza sosta. Esemplare, in tal senso, la scena che vede la mamma di Tommy (nella realtà la madre di Scorsese) servire un piatto di pasta e rognoni a un trio che ha appena rinchiuso una sua vittima ancora viva nel bagagliaio di un’auto.

La violenza sembra essere un filo che percorre l’intero tessuto della vita di questi individui e Scorsese, oltre ad associarla al potere e alla prevaricazione, la fa convivere – forse per evidenziare l’ingannevole apparenza di cui è ammantato il mondo malavitoso – con la cucina. Innumerevoli sono le simbologie presenti nel film che sottolineano questo aspetto. Il quartiere generale della banda è un ristorante, in prigione l’aglio viene sbucciato con la stessa lama con cui si taglia la cocaina, senza tralasciare la scena del pranzo nella casa della mamma di Tommy, in cui Pesci brandisce il coltello da cucina, trasformando l’oggetto in un’altra funzione, dal rito intoccabile del pasto a quello del massacro di un uomo già morente. Pasta al sugo e cadaveri da nascondere, mamme e pistole, spari, boati e soldi, tanti soldi.

Magistrale è il piano sequenza di tre minuti che vede Henry e la moglie Karen (Lorraine Bracco) entrare nel prestigioso Copacabana e vederli attraversare le cucine del locale per raggiungere il loro tavolo in prima fila: Henry distribuisce sorrisi, battute e soprattutto laute mance. La banconota gli apre le porte. Così come significativo sia il fatto che Karen riceva al matrimonio più che fiori e abbracci buste di denaro e soprattutto, come confessa Henry ad un certo punto del film, “pagavamo gli sbirri, gli avvocati, i giudici. Stavano sempre con la mano tesa”. Un mondo di cartapesta che tenderà a frantumarsi quando tutto comincerà a trasformarsi, quando le anfetamine prenderanno il posto delle polpette e gli amici si riveleranno squali.
Grazie ad un cast eccezionale, i personaggi risultano inevitabilmente indimenticabili: Ray Liotta è bravissimo, De Niro come al solito non si discute, ma è soprattutto Joe Pesci, nell’interpretare un personaggio dalla folle, intollerante violenza assoluta, a restituire un ritratto delirante, sopra le righe. Meritatissimo il suo Oscar, frutto di una recitazione perfetta, tale da mostrare nello stesso tempo un uomo capace di far ridere e spaventare dopo pochi secondi. Nulla può fermare la sua furia animale, si placa solo quando mammá gli prepara i maccaroni col sugo di polpette di carne.

Un’interpretazione sublime, così come indimenticabile è la colonna sonora del film, ininterrotta, che è parte integrante dell’ambiente in cui vivono i personaggi e che spazia da Tony Bennett ai Rolling Stones, da Parlami d’amore Mariù alle note di My way cantata da Sid Vicious, fino a Jump into the fire di Harry Nilsson che contrappunta l’ultimo giorno di Henry da gangster, quando è pieno di cocaina fino al collo e il ritornello We can make each other happy (Possiamo renderci felici…) è un chiaro commento a quello che di lì a poco accadrà.
Quei bravi ragazzi resta ancora oggi un gangster movie anomalo, che conserva la struttura classica del film sulla mafia – l’ascesa e la caduta, il potere e la polvere – ma che sa andare oltre e guardare più in profondità, diventando un classico del cinema, un saggio, l’esplorazione di uno stile di vita.

Bravissimo! Come al solito il maestro Di Noto ha colto l’essenza di un film in effetti anomalo, ma di grande potenza ed efficacia. Grazie per l’attenta disamina.
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