di Laura Pozzi

“Non mi vai più a genio, sei un uomo noioso”. Con parole dure e disinvolte il ruvido e taciturno Colm Doherty (Brendan Gleeson), “condanna a morte” la fraterna amicizia con l’incredulo Pádraic Súilleabháin. Una sentenza unilaterale che nella testa del violinista Colm non ammette repliche né spiegazioni, ma solo un cruento ultimatum destinato a recidere molto più che un legame apparentemente solido e senza sbavature. Una situazione grottesca, assurda, spiazzante capace sulle prime di far maldestramente sorridere, per poi sovvertire e squilibrare una narrazione volutamente straniante. Tuttavia non c’è da stupirsi se dietro la macchina da presa troviamo un certo Martin McDonagh drammaturgo e regista di Tre manifesti ad Ebbing (2017), 7 psicopatici (2012) e In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008). Avvalendosi come 15 anni prima della collaborazione e complicità di due cavalli di razza come Gleeson e Farell, il brillante McDonagh torna nella sua amata Irlanda, inventa l’isola di Inisherin e tra scenari mozzafiato e spiriti del passato dirige con piglio folle, ma lucidissimo, una macabra e surreale ballata fraticida, una partitura al limite del nonsense dove (almeno inizialmente) si fatica a percepirne il senso.

Un po’ come succede al mite e sorridente Pádric ragazzotto dall’aria ingenua, amante degli animali e di quell’isola remota, sospesa e tagliata fuori dal tempo dove un’anziana figura, sinistra e inafferrabile appare di colpo predicendo imminenti sventure. E in questo senso è d’obbligo pensare oltre che vedere il film in lingua originale per cogliere in parte la vera essenza di un’opera cupa e inaccessibile, ma tanto attuale da ricondurci ad un presente non troppo dissimile dal quel 1923 dove impazza una sanguinosa guerra civile.The Banshees of Inisherin è il nome di battesimo e fa riferimento a una figura folcloristica della mitologia irlandese, una sinistra guardiana dell’isola capace di predire la morte. Un titolo faticoso e poco agevole, ma illuminante per lasciarsi sfiorare, avvolgere, ma anche respingere dall’atmosfera soprannaturale di un film insolito e abbagliante. Tanta magnificenza nasconde in realtà molte contraddizioni che non tardano a sfociare in veri e propri conflitti, come quello ideato da Colm e dalla sua frustrazione per aver sprecato il suo tempo e non essere riuscito a “lasciare un segno”. La sua ossessione diviene da un giorno all’altro quella di essere ricordato per qualcosa di concreto e tangibile, magari una canzone con protagonista la banshees del titolo. E poco importa se un cuore viene spezzato e a farne le spese sono sentimenti, legami, affetti.

Colm non ha più tempo da perdere con un tipo insulso come Pádric, un buono a nulla dedito solo all’inseparabile boccale di birra. Eppure Pádric è un ragazzo gentile, sensibile, un puro che ama profondamente la sua terra, l’asinella Jenny, sua sorella Siobhán (Kerry Condon) e che mai rinuncerebbe alla bevuta pomeridiana con Colm. Il suo mondo ruota intorno a rituali semplici, arcaici, forse noiosi, ma non per questo meno vitali delle alte e improvvise apettative artistiche di Colm. Tuttavia quest’ultimo è di altro avviso, la gentilezza tanto cara a Pádric lo lascia indifferente, non sa che farsene, è destinata insieme al suo ex amico a cadere nell’oblio, non a brillare per l’eternità. Tra echi di guerra provenienti dalla terraferma e fallimentari tentativi di riconciliazione da parte di Pádric l’intera comunità dell’isola assiste impotente a un’inedita guerra fredda a tinte horror. Solo gli animali sembrano esenti da tale follia, ma neppure il loro candore potrà preservarli dalla stupidità umana. Si perché non ci troviamo di fronte a un film di guerra come verrebbe naturale pensare e neppure ad un’eccentrica commedia dalle folgoranti intuizioni. Certo la penna di McDonagh è come al solito pungente e incisiva, ma alle volte anche lei sembra prendere le distanze e arrendersi all’insensatezza dei comportamenti umani. Ed è proprio questa arrendevolezza, scambiata erroneamente per inconsistenza a dotare il film di un carattere alieno tanto complesso, quanto affascinante.

Al regista non interessa spiegare nulla, fa girare la storia intorno a una serie di interrogativi senza risposta, ma non dimentica il suo pubblico seducendo lo sguardo con immagini di struggente bellezza. Ad ogni tentativo (umano) di rottura, contrappone la maestosità della natura che se ne sbatte dei limiti umani e continua ad imporsi con la sua incessante bellezza. Bellezza che non salverà il mondo, ma probabilmente lo seppellirà, lasciando vagare in riva al mare spiriti dall’animo usurato intenti a rimpiangere la versione migliore della loro vita terrena, quella che hanno sprecato e accantonato per lasciar spazio all’indifferenza e avidità delle loro azioni. “La cosa più terribile in questo mondo è che ognuno ha le sue ragioni“, diceva il grande Jean Renoir ne La regola del gioco lasciando intravedere la nociva inclinazione dell’uomo a giustificare anche le più odiose nefandezze del suo operato. McDonagh non indaga le ragioni dei suoi personaggi, non tenta di comprenderle, si limita a mostrane la reale pericolosità. Anche se alla fine ripone un barlume di speranza in Shiobán e Dominic (Barry Keoghan, un fool dall’inaspettata profondità) i due outsider che in qualche modo raccontano un’altra storia (per chi la vuole ascoltare). Il film già vincitore a Venezia per la miglior sceneggiatura e il miglior attore a Colin Farrell è candidato a nove premi Oscar nelle categorie principali. Non sappiamo se McDonagh riuscirà a convincere fino in fondo i membri dell’Academy, ma un riconoscimento così importante a Farrell renderebbe giustizia non soltanto a un cuore ferito, ma ad un attore finalmente ritrovato.
