di Girolamo Di Noto

Esistono registi che hanno saputo raccontare con magistrale perfezione di tecniche narrative la vita di personaggi comuni, imbrigliati tra ambizioni di successo e incapacità a realizzarlo. Wilder, ad esempio, con il suo The lost weekend (Giorni perduti) ha dato vita, con eccezionale brillantezza, ad un’opera superlativa sulla perdizione di un uomo, uno scrittore che, nel cercare sollievo dai propri fallimenti, trova rifugio nella bottiglia fino a diventarne schiavo.

Wilder, come tutti i grandi registi, non si limita a mostrare in superficie il problema, ma lo approfondisce: il film non è semplicemente un lucido viaggio nella piaga dell’alcolismo, non è solo un dettato clinico sugli effetti dell’alcool sulla psiche umana, ma è soprattutto un’efficace trasposizione in immagini di un’ossessione, di un’identità smarrita, di un’icona della perdizione al punto da far dichiarare allo scrittore Thomas Mann un giudizio a dir poco lusinghiero sul film definito “molto efficace nel descrivere lo stato morboso”.

La storia è quella di uno scrittore in crisi, Don Birman (Milland) che si attacca alla bottiglia nonostante gli sforzi per dissuaderlo di fratello (Terry ) e fidanzata (Wyman). La vita del protagonista è una collezione di giorni perduti, di ore trascorse a vedere la propria esistenza spremersi fino all’ultimo goccio. Si abbassa ad ogni espediente per procurarsi del denaro e, dal momento che la vena creativa si è esaurita, ogni cosa si consuma, svanisce con l’evaporare dei fumi dell’alcol. Basterà l’amore della ragazza a fargli trovare la forza per guarire?

Giorni perduti è uno splendido viaggio allucinato negli abissi di un vizio che non ammette vie di mezzo: la guarigione o la morte. Wilder è straordinario nel sondare la totale dissoluzione di un animo umano messo di fronte alla sua devastante fragilità e la sua operazione è ancora più importante se pensiamo che, prima di questo film, sullo schermo gli ubriachi erano stati rappresentati come personaggi comici che suscitavano la risata perché non sapevano reggersi in piedi o non riuscivano a infilare la chiave nella serratura.

Qui Don Birman non è atteso da una donna a casa con il mattarello in mano, pronta a suonargliele di santa ragione: qui c’è un uomo che ha una voglia furiosa di solitudine, che respinge i familiari per essere lasciato solo con la bottiglia. Il film di Wilder ci mostra un uomo che perde la propria dignità, cade in basso e mostra di sé tutti gli aspetti più deleteri del vizio: gli autoinganni, il furto, la sofferenza dell’astinenza, l’effimero senso di onnipotenza e lo fa con uno stile che lascia incantati.

Wilder è, più di ogni altro autore, meraviglia: grazie a forti tagli di luce, giochi d’ombre, sovrimpressioni e una messa in scena elegante, il regista riesce a trasmettere la doppia personalità del protagonista, sempre più lacerato tra un mondo amorale e uno di possibile controllo.
“Esistono due Danny. Danny lo scrittore e Danny il bevitore”, afferma il protagonista alla fidanzata. Quello alcolizzato che beve perché si sente un fallito, una nullità, l’altro che fatica a tornare al mondo della responsabilità e dei doveri. Per raccontare l’ambiguità del personaggio, Wilder mette in risalto come cifra stilistica la profondità di campo.

Un esempio di straordinario pezzo di cinema si ha all’inizio del film: quando Danny cerca di convincere il fratello a recarsi al suo posto, insieme alla fidanzata Helen, ad un concerto di musica classica. In realtà egli vuole rimanere solo per scolarsi la bottiglia di whisky che ha nascosto fuori dalla finestra. Wilder riprende in profondità di campo la stanza: sullo sfondo ci sono il fratello e la fidanzata, cui Danny dà le spalle; non potendo vederlo in faccia, i due credono davvero che l’idea di regalare il biglietto al fratello è dettata da generosità e non invece da necessità. Dettagli d’autore, da fine conoscitore di cinema, ispirato probabilmente all’inimitabile ” tocco ” di Lubitsch, per l’attenzione ai minimi particolari e ai raffinati indizi che sanno essere più eloquenti di tante dichiarazioni strombazzate.

L’ambiguità identitaria è poi presente nello sdoppiarsi del protagonista tra realtà e sogno, nel delirium tremens che lo porta ad avere perverse allucinazioni, nella scena in cui assiste ad uno spettacolo teatrale in cui i ballerini- nella sua testa – si trasformano in impermeabili, nella cui tasca si nasconde il whisky.
Ma lo sdoppiamento più importante, la tensione maggiore, la lacerazione più evidente si ha tra lui e l’ambiente circostante, tra Don Birman e New York, qui rappresentata, già dal piano sequenza iniziale, come una città ostile, assente, indifferente. L’inizio è da antologia: una panoramica su New York che pian piano si assottiglia fino ad avvicinarsi lentamente ad una finestra aperta dove si vede una bottiglia di whisky che penzola appesa con una corda. Siamo già proiettati nel bel mezzo dell’azione, è già marcato il rapporto tra il dentro (l’uomo e il suo vizio) e il fuori (la città indifferente).

L’ostilità dormiente della città risulta evidente quando Don vaga alla ricerca di un banco di pegni per impegnare la sua macchina per scrivere e trova tutto chiuso per la festa ebraica dello Jom Kippur: Wilder è abile nel catturare le atmosfere distanti della metropoli e le camminate per la città del protagonista in preda all’astinenza sono un esempio perfetto di ricostruzione di una società indifferente e sonnambula che lo abbandona ai suoi deliri, immagine di un’America come terra promessa che viene disintegrata e dissolta.

Don Birman è qualcuno che gira a vuoto. Estraniato, alienato dal luogo in cui si trova, torna sempre al punto di partenza, barcolla alla cieca verso altre ebbrezze, verso altre baldorie ma poi ritorna nuovamente insoddisfatto di sé. Nel bar di Nat trova rifugio, ha modo di raccontare episodi della sua vita, lascia sfogare la sua delusione. È il luogo in cui beve “nebbia e acqua di vita “, ma anche dove viene esortato a guardarsi allo specchio e dove ha modo di toccare con gli occhi il suo vizio: in un’altra scena memorabile si vede ad un certo punto il bicchiere lasciare sul bancone un segno circolare.

Quando il barista fa per asciugare l’umida traccia, Don lo ferma: “No,non asciugare. Lascialo stare, il mio circolo vizioso”. Wilder ammicca alla figura del cerchio come simbolo di perfezione che non ha mai uno sbocco, che ben si adatta alle circolarità temporali nelle quali il film svolge la sua trama. I cerchi bagnati che Wilder rappresenta con una dissolvenza incrociata danno l’immediata percezione della disfatta di un bevitore recidivo contro cui forse solo la tenacia e la grande forza d’animo della sua compagna potranno vincere.

Giorni perduti è lo studio di un rapido declino, un film scabro e per nulla consolatorio sull’oscillare di un uomo tra scacco e adattamento, dalla sceneggiatura impeccabile, dalla fotografia eccellente che sa catturare i grigi e i neri della vita e dall’interpretazione indimenticabile di Ray Milland, giustamente premiata con l’Oscar.
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