di Girolamo Di Noto

Uno dei registi che ha saputo descrivere con strabiliante bellezza visiva l’America raccontandone l’identità nelle sue contraddizioni è stato Michael Cimino. Se ne Il cacciatore il regista metteva in evidenza la perdita dell’innocenza di un’America costretta a fare i conti con la guerra del Vietnam, ne I cancelli del cielo a risaltare è la perdita del sogno americano.

Questo insolito, struggente e atipico western che contemporaneamente celebra e distrugge il mito della Frontiera è uno straordinario affresco di una delle pagine più infamanti della storia americana: la Johnson County War del 1890, nel Wyoming, che vide protagonisti da una parte i ricchi proprietari terrieri, dall’altra le comunità di immigrati europei, destinati a sfociare in un conflitto sanguinoso.

L’epopea di James Averill (Krist Kristofferson), figlio di una ricca famiglia americana, il suo amore per la prostituta Ella Watson (Isabelle Huppert), la feroce rivalità contro l’amico ed ora avversario Nate D. Champion (Christopher Walken) sono narrati dal regista con uno stile magniloquente e fastoso che lascia percepire, perfino nelle scene d’amore o in occasione di feste danzanti, un sottofondo di violenza pronto ad esplodere senza alcuna possibilità di controllo.

È una linea di demarcazione – quella che traccia Cimino – che ingloba tensione in ogni istante, tra idillio della comunità rurale e la minaccia incombente degli allevatori di bestiame, tra la libertà e la sopraffazione, tra la realtà e le sue aspirazioni, quest’ultime già espresse nella bellissima e spettacolare sequenza iniziale all’interno del college di Harvard, dove James festeggia la propria laurea con l’amico Billy Irvine (John Hurt).

Entrambi hanno la mente stipata di sogni, ideali, insieme ascoltano il discorso di fine anno che il rettore (Joseph Cotten) rivolge a loro predicando la necessità di educare una nazione, soprattutto dopo una guerra, quella del 1870, che aveva martoriato un paese già diviso. La sua oratoria ripropone un principio morale secondo cui la crescita di una nazione può avvenire solo con l’incontro di una mente “colta” con una mente “incolta”.

Già dal discorso del rettore affiora la dicotomia tra la libertà di vivere secondo la propria natura e l’accettazione di un mondo regolato dalle leggi dei potenti. Venti anni dopo i destini dei due amici prenderanno strade diverse: James deciderà di difendere la contea di Johnson County dall’esercito di mercenari assoldati da Frank Canton (Sam Waterston), il capo degli allevatori che progetterà, con il consenso del presidente degli Stati Uniti, di eliminare 125 immigrati, 125 nomi scritti sulla sua lista nera di “ladri e anarchici”.

Billy, pur restando l’amico ideale di James, non troverà la forza per unirsi a lui e diventerà un avvocato presso una potente associazione di allevatori contraria all’arrivo degli immigrati. La sua debolezza, che gli impedisce di ribellarsi concretamente ad un potere che non condivide, si rivelerà quando anni dopo – infelice e alcolizzato – ritroverà James e in una scena struggente si avrà modo di toccare con mano il tono elegiaco dei sogni ormai passati, della disillusione incombente: “Dimmi James, li ricordi tu, i bei giorni andati?”. “Ogni anno che passa sempre di più, Billy”.

Tutta la poetica di Cimino sembra insistere sul motivo centrale dell’identità divisa: Frank Canton ha bisogno di dimostrare a sé stesso di non essere un pavido uccidendo brutalmente un immigrato inerte legato ad un carro, così come nel personaggio del killer sfuggente e felino Nate Champion, lo straordinario Walken immette l’ambiguità sia dell’uomo giustiziere al soldo degli allevatori e sia quella dell’uomo che si redime quando prende coscienza dello sterminio barbarico di cui è incautamente corresponsabile.

Lo stesso James Averill, pur avendo maturato le sue scelte sapendo da che parte stare, è uno sceriffo che, invece di onorare le cerimonie religiose, preferisce trascorrere il suo tempo con la prostituta Ella e quest’ultima, contesa tra lo sceriffo e il killer, diviene ben presto simbolo del desiderio e della partecipazione affettiva, dell’abbandono smanioso tra le braccia dell’altro e l’anelito ad accasarsi.

Questo aspetto bifronte, questa complessità dei personaggi si incarnerà nei due differenti volti dell’America, quello genuino, rurale dei contadini, l’altro ruvido, cinico, senza scrupoli dei proprietari terrieri. Nel descrivere la differenza delle due classi sociali, Cimino si sofferma soprattutto sulle scene che descrivono le coreografie delle feste danzanti: perfette e a tempo, degne di essere paragonate al Visconti del Gattopardo quelle della festa dei cadetti del 1870, frenetiche e caotiche quelle degli immigrati.

Il motivo della danza assume così varie sfumature: diventa rituale di iniziazione alla vita per un accademico, un momento di estasi collettivo per un immigrato, un modo per sognare un futuro migliore per James ed Ella.

Cimino è straordinario ad alternare feste goliardiche a battaglie cruenti, scene di tenerezza a violenza inaudita, ma è ancora più immenso a rappresentare degli squarci di vita attraverso paesaggi di struggente bellezza, che esaltano e comprimono i personaggi, divenendo teatro della pochezza e dell’avidità umana.

Memore delle lezioni di Anthony Mann, Ford e Peckinpah, Cimino rappresenta lo spaesamento dell’individuo attraverso inquadrature sublimi della natura circostante. A restare scolpiti nella memoria sono i cieli infiniti, le montagne rocciose innevate, le magnifiche vallate, luoghi che fanno da cornice all’ineluttabile destino degli uomini.

Nonostante sia stato alla sua uscita un fiasco colossale che spinse la United Artists – la casa di produzione di Chaplin e Griffith – al fallimento, il film merita oggi il suo posto di primo piano perché è l’espressione di un cinema torbido che ha saputo raccontare, con un tono epico ed elegiaco, il sogno americano fatto a pezzi, una possibile America alternativa.
Un cinema d’altri tempi, sorretto da contenuti importanti e che raggiunge vette espressive e stilistiche insuperabili.

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