Tempi moderni (Usa/1936), di Charlie Chaplin

di Girolamo Di Noto

Da sempre il cinema ha prodotto con grande intensità film riguardanti il mondo del lavoro. Alle fatiche ed alle difficoltà di sopravvivenza dei diseredati del mondo, così come alle utopie di una società meno ingiusta, il britannico Ken Loach ha dedicato tutta la sua filmografia, c’è poi il filone più dissacrante e grottesco che si ritrova in pellicole come Full Monthy, in cui si cerca di sbarcare il lunario con espedienti più fantasiosi, c’è il senso di alienazione spersonalizzante che vede protagonisti l’uomo e la macchina.m


Su quest’ultimo aspetto oltre ad essere degno di nota il film di Petri, La classe operaia va in paradiso, con un immenso Volonté che interpreta Lulù Massa, operaio in una fabbrica metalmeccanica, che si distingue per il suo strenuo lavoro, annientando la propria personalità nella catena produttiva, va senz’altro evidenziato l’apporto significativo di un capolavoro indiscusso del cinema mondiale, Tempi moderni di Charlie Chaplin.
Il film narra le vicende dell’operaio Charlot. La sua mansione è quella di avvitare i bulloni in una catena di montaggio. Impazzito per i forsennati ritmi di lavoro, verrà internato per cure psichiatriche e poi dimesso, finirà arrestato dalla polizia, riconquisterá la libertà, cercherà di trovarsi un nuovo lavoro quando incontra un’orfana ribelle( Paulette Goddard) di cui si innamora. Dovranno ancora fuggire prima di ritrovarsi, all’alba, lungo una strada…
Tempi moderni è il primo film a portare sullo schermo, in chiave comica, le alienazioni della modernità e il rapporto controverso tra uomo e macchina.

L’interesse di Chaplin è rivolto soprattutto alla dignità dell’uomo nelle condizioni moderne di lavoro. Il film si apre con una metafora che non lascia spazio a dubbie interpretazioni: come un branco di pecore che si affolla dentro un recinto, così gli operai si accalcano per entrare e uscire dalle fabbriche. L’umanità è ridotta già allora a massa indistinta, il gregge di operai sembra scivolare nell’anonimato, certo, non è la fabbrica di Metropolis di Lang che divorava i suoi lavoratori come un Moloch, l’antica divinità fenicia che esigeva sacrifici umani, ma resta comunque forte il principio, seppur alleggerito dall’effetto comico, degli uomini risucchiati dai meccanismi di un mondo disumanizzato, proiettato verso la produzione esasperante, verso uno sfrenato consumismo che annienta ogni valore umano.

La presa di posizione di Chaplin è netta e decisa e la sua favola satirica contro la meccanizzazione e lo sfruttamento sociale è tanto esilarante quanto struggente. Tantissime sequenze sono passate alla storia e ancora oggi si guardano con un sorriso amaro, con una risata travolgente mista a malinconia. L’uscita di senno di Charlot, il fatto di vedere bulloni ovunque, persino sulle gonne e sulle camicie delle donne malcapitate che passeggiano, producono nello spettatore risate sguaiate ma non liberatorie, fanno molto divertire ma inducono a profonde riflessioni.

Esilarante, ad esempio, è la scena in cui Charlot fa da cavia per la sperimentazione di un macchinario che dovrebbe consentire agli operai di nutrirsi senza distorglieli dal loro compito che è quello di produrre nel minor tempo possibile, così come celeberrima è la scena del protagonista che scivola tra gli ingranaggi dentellati della catena di montaggio, chiaro riferimento all’uomo intrappolato dalla tirannia delle macchine, che si trova invischiato nei ritmi crudeli e instancabili della produzione a tutti i costi. Chaplin si fa beffe del fordismo e del taylorismo, mette alla berlina il proprietario della fabbrica che spia i suoi dipendenti, legge fumetti, fa puzzle, gestisce la velocità della catena di montaggio e soprattutto si schiera a difesa della dignità dell’uomo contro l’asservimento dell’individuo ai dogmi del profitto.


Disoccupazione e detenzione fanno da contrappunto all’esistenza di questo personaggio. Sarà proprio girovagando che Charlot farà la conoscenza della monella, orfana di un sindacalista ucciso durante uno sciopero e in fuga dai servizi sociali.
Sarà un rapporto di grande tenerezza quello che nascerà tra loro, alle prese con il desiderio di soddisfare i bisogni primari – mangiare, avere un luogo dove ripararsi, essere amati: le aspirazioni non sono poi così alte, ma i momenti di gioia sono immediatamente suggellati dalla disillusione che arriva puntuale. Eppure la felicità si richiama a qualcosa di semplice e si mostra nella scena del sogno della casa ideale: un rifugio dove possono cogliere mele mature affacciandosi alla finestra o dove basta fare un fischio ad una mucca perché si fermi davanti alla porta e si faccia mungere.


Insieme ingaggiano una lotta contro la società che non è rivoluzionaria ma è per la dignità. Miseria, illusione, alienazione, amore sì alternano con un ritmo travolgente in questo capolavoro intramontabile in cui Charlot incarna la sofferenza dei diseredati: ultimo degli ultimi, ridotto a ingranaggio, porta nel cuore una geniale furbizia che lo conduce a cavarsela nei momenti peggiori- si noti la disperazione di un uomo a che punto possa arrivare per addossarsi, in una scena, la colpa per farsi arrestare in modo da poter mangiare…, ma anche una commovente sensibilità e una voglia di non arrendersi come nell’immagine finale, quando lei piange disperata e lui, nonostante le avversità, la invita a sorridere, le infonde fiducia per incamminarsi mano nella mano sulla strada di un incerto futuro.


Rinunciando ancora una volta al sonoro – le uniche voci che si sentono sono filtrate da apparecchi tecnici e la voce di Charlot che si ascolta per la prima e ultima volta nella scena in cui canta Io cerco la Titina è in realtà un insensato miscuglio di parole nonsense provenienti da diverse lingue, Chaplin realizza un’opera che sa ben coniugare critica sociale e umorismo, un capolavoro assoluto perché fa scaturire i concetti dalle immagini e non viceversa e soprattutto perché mette in scena, nonostante l’egoismo, la miopia, l’aviditá dei tempi moderni, l’amore, la bellezza del crederci. L’operaio Charlot potrà perdere la ragione, la libertà ma non sarà capace a disimparare ad amare e l’immagine finale – quella del vagabondo e della monella che si allontanano verso l’orizzonte è, come scrisse il critico Von Bagh, ” la più riuscita rappresentazione della felicità umana che sia mai stata portata sullo schermo”.

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