
C’è sempre qualcosa di grandioso e superlativo in una sequenza di un film di Nagisa Oshima, o anche solo in un’inquadratura, da restare impressa nella memoria, fissa negli occhi. In Racconto crudele della giovinezza c’è una scena in cui viene messo in atto, con efficacia ed eleganza formale, uno scontro generazionale, un confronto tra le generazioni dei ventenni cui appartengono i due protagonisti, Makoto (Kuwano), studentessa di piccola virtù, e Kiyoshi (Kawazu), aspirante delinquente, e quella dei trentenni, rappresentata dalla sorella di Makoto, Yuki, e del suo ex fidanzato, Akimoto. Sono tutti segnati dal marchio della fatalità, sembrano crisalidi non ancora del tutto liberate del loro bozzolo, ma mentre i più grandi riflettono amaramente sui progetti che ormai vedono dileguarsi tra i sogni, i più giovani affermano con ironica consapevolezza: “noi non abbiamo nessun sogno. Per questo non finiremo come voi”.

L’ abilità stilistica di Oshima nel rappresentare questa scena sta nel fatto che tale confronto non avviene attorno ad un tavolo o in una stanza attraverso il tradizionale campo-controcampo, ma è diviso da una parete: al di là di essa, provenienti dal fuori campo, le parole di rassegnazione che Yuki e Akimoto si scambiano nella stanza vicina, mentre ciò che lo spettatore vede, con particolare intensità espressiva, è il volto di Kiyoshi seduto a fianco di Makoto che ha appena abortito, la cui rabbia impotente è tutta affidata alla mela che mangia a morsi, mentre ascolta, perse nell’oscurità, le voci in primo piano.
Considerato il manifesto della Nubern Bagu, la Nouvelle Vague giapponese, girato lo stesso anno di Fino all’ultimo respiro di Godard, Racconto crudele della giovinezza è un grande affresco sulla gioventù giapponese, sbandata, priva di veri punti di riferimento.

Da un lato abbiamo una giovane coppia di amanti che si procura il denaro necessario a divertirsi estorcendolo a uomini maturi, che la ragazza avvicina lasciando inizialmente credere loro di essere disponibile a un incontro sessuale, dall’altro una generazione più anziana, vittima dell’impotenza e dello scetticismo, lontana dall’avere un possibile contatto con i giovani.
Emergono, ad esempio, figure prive di autorità, come il padre di Makoto, vedovo, incapace di farsi rispettare, abile solo a rimandare le questioni perché “altrimenti faccio tardi al lavoro”, o l’amante attempata di Kiyoshi, che può mantenere un legame con il ragazzo solo attraverso il sesso e il denaro.

Ma ancor di più emerge la coppia formata da Yuki e Akimoto, due vinti che hanno cercato di cambiare il mondo senza riuscirci e nella già citata scena della parete che divide le due generazioni, a separarsi sono due stili di vita, due scelte: una militante, politica, collettiva che è stata propria dei trentenni, che hanno sì cercato la felicità ma perseguendo il benessere della nazione, una individualistica, criminale, tesa ad alimentare egoisticamente i propri desideri come quella dei ventenni.
Oshima è straordinario nel raccontare, attraverso questi due giovani, questa generazione nichilista, che non ha nessun sogno, nessun progetto per il futuro, nessun ideale da realizzare. Lui è cinico e vulnerabile nello stesso tempo, lei vive ai margini della società, sa che seppur dovesse gridare aiuto, ciò che ritornerebbe sarebbe solo l’eco del proprio grido.

Sono indifferenti alle manifestazioni politiche, sono annoiati persino dalla musica, vivono di notte ripetendo ossessivamente la scena del loro primo incontro: lei si lascia abbordare da automobilisti, lui interviene per “salvarla”, facendosi dare denaro dai malcapitati.
Non hanno consapevolezza del bene e del male, sono due cani sciolti rabbiosi, che vivono la ribellione senza alcuna prospettiva ideale e la loro rivolta assume la forma di delinquenza gratuita. L’aspetto crudele della loro giovinezza è tutto racchiuso nel vuoto che li attanaglia, nel macigno che comprime la loro vita emotiva. Makoto e Kiyoshi sono giovani anime perdute senza alcun istinto vitale, vivono alla giornata, in bilico, tra degrado urbano ed erranza esistenziale.

Un’umanità precaria che si muove in luoghi che evocano le periferie pasoliniane, che porta con sé una sensibilità gracile, oscillante tra un’intensa aggressività e una gelida imperturbabilità. Le passioni sono cancellate in una notte, sono effimere, legate al tempo di un amplesso e il cuore, un tempo tumultuoso, ora si fa piatto, non reattivo.
Nessun film aveva osato spingersi così avanti nella descrizione dell’universo giovanile e nessun regista aveva messo in atto una rottura così forte rispetto al linguaggio dei padri del cinema giapponese.

Oshima racconta il cinema fuori dalle regole dei grandi registi come Ozu, Mizoguchi, Kurosawa e rispetto alla perfezione formale dei vecchi maestri – camera fissa, macchina da presa rasoterra, inquadratura realizzata come se fosse un quadro, in perfetta armonia stilistica – il regista propone l’uso della camera a mano, riempie lo schermo di primi piani, rappresenta i protagonisti di spalle, inquieti come sono, non più chiusi e limitati in uno spazio scenico ben definito, ma in piena libertà, in un contesto reale, non ricostruito, alle prese con il loro spaesamento.
Racconto crudele della giovinezza resta ancora oggi un film da riscoprire, un’opera abbagliante, distruttiva, senza prospettive salvifiche, propria di un regista che non ha avuto esitazioni a raccontare le piaghe nascoste dietro la facciata di una nazione tranquilla e florida come il Giappone e ha saputo descrivere la vita – i suoi frammenti disgreganti – con rara intensità e partecipazione.

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