Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, di Chantal Akerman (Belgio/Francia 1975)

“O dolore, o dolore, il Tempo mangia
la vita, ed il Nemico oscuro cresce
del sangue che perdiamo, e si rafforza;
questo Nemico che ci rode il cuore!”

Charles Baudelaire,
Il Nemico, da I fiori del male

Ci sono registi che hanno il dono prezioso di dare una immediata, irresistibile curiosità a chi li guarda, nonostante mettano a dura prova la pazienza dello spettatore. Chantal Akerman, regista e artista belga, scomparsa nel 2015, è senz’altro tra questi. Non importa di cosa parli: se di difficoltà di comunicazione o di casalinghe in crisi, di libertà sessuale o di corridoi di hotel, tutto ciò che la Akerman ha mostrato nella sua carriera cinematografica sembra toccarci immediatamente, come se rivelasse nel modo più esatto qualcosa che ci appartiene e che forse abbiamo dimenticato o abbiamo paura di mostrare per evitare di essere giudicati. Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, da sempre inedito in Italia e finalmente trasmesso da Fuori Orario ed ora visibile su RaiPlay, racconta tre giorni nella vita di una giovane vedova ( Delphine Seyrig), che vive sola con il figlio adolescente Sylvain (Jan Decorte) e si prostituisce.

Jeanne vive in un piccolo appartamento a Bruxelles e organizza la sua vita con ordine e meticolosità, ripetendo rituali quotidiani ripresi in tempo reale: rifà il letto, pela le patate, cucina, lavora all’uncinetto, ascolta la radio, riceve in casa qualche cliente a cui vende il proprio corpo. Ogni momento della sua giornata viene registrato in un tempo prolungato, attraverso lunghe riprese, glaciali piani fissi, nessuna musica, enormi silenzi rotti da rumori di strada, conversazioni ridotte al minimo, porte che si aprono e si chiudono, ticchettii delle scarpe, fiammiferi sfregati, diventando così una cronaca intimistica e fluviale, dove la solitudine riempie le stanze e la vita irrompe sullo schermo in tutta la sua angoscia assordante, richiamando l’attenzione sul quotidiano, l’ordinario, la norma.

Se Hitchcock considerava “il cinema come la vita senza le parti noiose”, per la Akerman sono le parti noiose della vita a irrompere sullo schermo, sono i tempi morti ad essere valorizzati: attraverso lunghi piani sequenza, una macchina da presa fissa sui personaggi che ricorda molto il cinema di Ozu ma soprattutto quello di Bela Tarr, la regista belga non si limita a ricostruire una semplice rappresentazione fedele alla realtà, ma mette in scena, sì, è proprio il caso di dire “mette in scena”, poiché spesso si ha l’impressione che la scena si realizzi su un palco teatrale, il dramma quotidiano, l’alienazione che nasce in un contesto familiare.

Le lunghissime riprese che vedono la donna preparare il caffè o farsi il bagno o impanare le cotolette mettono a dura prova la pazienza dello spettatore, anche quello più allenato, ma non devono scoraggiare, ma lasciare lo spazio per interrogarsi su quello che si sta vedendo e quindi è sbagliato dire “non succede niente”, perché in realtà l’operazione che fa la Akerman è quella di metterci di fronte un delicato personaggio che fa le cose “nel giusto ordine per non essere sopraffatto dall’angoscia e dall’ossessione della morte”.

La ripetitività dei gesti, le luci al neon dei negozi che producono degli effetti stranianti nelle stanze della casa poco illuminate, i dialoghi scarni, l’assenza di vita sociale finiscono col delineare il ritratto di una donna imprigionata da sbarre invisibili, relegata ad un rapporto irrisolto con i propri desideri, inserita in un contesto in cui la morte si sconta vivendo.

La Akerman è abile nel mettere a nudo la sofferenza della donna in modo graduale e attraverso l’utilizzo di oggetti, gesti, parole arriva a mostrare come la sicurezza iniziale della donna, la sua impeccabilità inizi a vacillare pian piano, già dal secondo giorno. La pettinatura arruffata, una porta non chiusa, un bottone perduto, il caffè bruciato rappresentano i primi imprevisti, le prime deviazioni dalla norma, le prime avvisaglie dell’imminenza del disordine, dell’io della donna che sta cominciando a sgretolarsi, di un evento esplosivo che accadrà nel finale che lascerà interdetti.

Definito da Sight e Sound il miglior film di tutti i tempi, arrivando a scavalcare classici intramontabili come La donna che visse due volte di Hitchcock e Quarto potere di Welles, l’opera della Akerman è soprattutto un film sugli effetti devastanti del tempo sulla vita umana. La regista richiama questo concetto nella scena in cui si vede il figlio Sylvain ripetere alla mamma a memoria la poesia Il nemico di Baudelaire che rivela l’angoscia che attanaglia il poeta quando trova i segni del tempo sul suo corpo. La vita è come un giardino i cui frutti, un tempo rigogliosi, sono appassiti lasciando spazio alla desolazione.

Identificandosi con la casa, ostinatamente attaccata al suo indirizzo, come si evince dal titolo, Jeanne Dielman è una donna che lotta per non scomparire, ma il suo vagare senza meta tra stanze diverse, la sua maschera di compostezza che diventa sempre più traballante e piena di smorfie, fanno sì che il suo controllo maniacale sulla realtà si sfaldi sempre più, facendo emergere quell’horror vacui, fino al drammatico epilogo.

Nel film la regista è straordinaria nell’inserire oggetti che non hanno una funzione puramente scenografica: mai relegati sullo sfondo, sono strettamente connessi allo sviluppo narrativo del film. Due oggetti in particolare si oppongono al loro uso proprio: la zuppiera posta sul tavolo del soggiorno utilizzata per mettere il denaro guadagnato dalla prostituzione e le forbici, inquadrate dapprima con lo scopo di essere usate per tagliare il filo di un pacco ricevuto in regalo e poi inserite in un contesto più drammatico.

Sconvolgente l’interpretazione naturalistica della Seyrig, già ammirata ne Il fascino discreto della borghesia di Bunuel: “con lei Jeanne uscì dallo schermo e prese vita” – affermò la regista, che la tallona e la marca in ogni momento del film, cercando di catturarne il respiro, intuirne il pensiero. Un cinema non per tutti i gusti, sperimentale, vicino alla performance artistica, impressionante per lo stile ultra rigoroso, ma soprattutto importante perché ha dato vita – con esattezza antropologica – alla routine di tutti i giorni, al desiderio di liberazione contro l’ordine di un mondo piccolo borghese, perché ha dato “a tutte queste azioni tipicamente sottovalutate una vita su pellicola”.

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