di Andrea Lilli –

Fremont è uscito in Italia a giugno 2024 ma è del 2023: non si trova nelle classifiche dei 5-10-20 top film che si fanno ora, a fine anno. Per rendergli giustizia, dovendo proprio giocare al Piccolo Critico, potremmo metterlo tranquillamente tra i due migliori film dell’ultimo biennio (l’altro, sceglietelo voi). Quarto lungometraggio dell’iraniano-londinese Babak Jalali (1978), che lo ha scritto e sceneggiato insieme a Carolina Cavalli (1991), è uno di quei rari film che affrontano con ironia leggera problemi pesanti, intimi e universali come la solitudine dell’esule, anzi nemmeno li affrontano: li affiancano, e li superano, e riescono a farlo usando pochissime parole – al posto delle parole: silenzi e sguardi. È, soprattutto, un gran bel film di sguardi. Di occhi.
Quelli di Donya/Anaita Wali Zada, la protagonista, la non attrice afghana che riproduce nella fiction ciò che ha vissuto sulla propria pelle, e in questa doppia valenza può voltarsi direttamente verso lo spettatore, fissarlo, metterlo a disagio, aumentarne l’empatia. Occhi profondi che possono restringersi o restare impassibili di fronte ai venti contrari, sorridere (spesso) o piangere (solo una volta) ma sempre aperti, senza mai perdere un grammo di dignità.


Gli occhi solidali e delicati della collega Joanna, amica di mole pari alla sensibilità. Gli occhi inquieti di un fumatore che nel cielo osserva stelle strane, straniere, inaffidabili rispetto a quelle cui era abituato. Gli occhi violenti di un marito-padre padrone, quelli rassegnati della moglie-madre serva. Gli occhi bonari di un datore di lavoro di mente aperta, quelli opposti di sua moglie spietata. Gli occhi imbarazzati di un bizzarro psicoterapeuta, che sembrano distanziare l’interlocutore ma poi si sciolgono in modo infantile nel raccontare (forse per l’ennesima volta, all’ennesimo paziente) la vicenda di Zanna Bianca. Gli occhi rugosi di un ristoratore, vecchio disilluso che non perde una delle seicento puntate di una telenovela in persiano chiedendosi se continua a seguirla perché è interessante, o perché è la sua vita a non esserlo più abbastanza.

“È sempre stato così. Sono sempre venuti a radere al suolo il nostro Paese, e se ne sono andati senza prendersi responsabilità. La tv è la miglior distrazione.”
Gli occhi senza tempo di un suonatore ambulante. Gli occhi di sconosciuti indifferenti o di tipi interessanti, che incontri solo quando la speranza o la disperazione ti fanno uscire dai soliti percorsi, in cerca di un motivo che giustifichi la tua vita nuova, o già il dono di un nuovo giorno.

Il bianco e nero, la scenografia essenziale, le inquadrature ristrette, la frequente camera fissa frontale aumentano l’intensità degli sguardi e sembra persino che amplifichino gli effetti sonori.
È anche un film di silenzi, di parole giuste e mai retoriche, come sobri sono i commenti musicali: in questo per niente americano, pur essendo un ambiente impossibile da collocare fuor d’America, in relazione alla trama e ai personaggi. La storia è quella di un’ex traduttrice che, fuggita dall’Afghanistan dopo il ritiro dei militari USA e il ritorno al potere dei talebani, vive da sola e trova lavoro come operaia in California, nella Bay Area, poco distante da San Francisco e dalla Silicon Valley. Fremont è la città statunitense con la maggiore comunità di afghani, ma ci sono anche molti cinesi. Donya lavora nel quartiere cinese di San Francisco, in un laboratorio a conduzione familiare che produce biscotti della fortuna. Viene promossa a compositrice di messaggi, quei biglietti oracolari contenuti nella conchiglia di pastella dolce che “consciamente o inconsciamente, incideranno sul flusso degli eventi” di chi li legge. Tra minime variazioni di abitudini quotidiane e piccoli ma sensazionali colpi di scena, qui si dimostra come i biglietti della fortuna possano cambiare anche la vita di chi li scrive.
- il film è disponibile su RaiPlay.it

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