“Forse non ho vissuto come avrei dovuto?” Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič”

di Girolamo Di Noto
Secondo il regista Andreij Tarkovskij “Il cinema si basa su due categorie di autori che, fondamentalmente, realizzano due tipi diversi di cinema: gli uni tentano di imitare, di ricreare il mondo in cui vivono, gli altri creano un proprio mondo. Coloro che nel cinema creano il proprio mondo si rivelano generalmente dei poeti”. Tra i registi che sono riusciti, attraverso un proprio singolare sguardo, a cogliere l’intima essenza della realtà, non fermandosi alla superficie ma cercando la sostanza delle cose fino a trovarla, sicuramente va menzionato Akira Kurosawa, artefice di storie d’immediata attrazione, conosciuto non solo per essere stato il cantore di personaggi epici come i samurai, ma anche per aver dato vita a vicende esemplari di uomini comuni, come quella del burocrate Kanji Watanabe ( Takashi Shimura), protagonista del film Vivere.

La scoperta di avere un cancro allo stomaco in fase terminale costringe il protagonista del film a fare un bilancio della propria vita: di fronte alla morte arriva a rendersi conto che ha vissuto una vita priva di senso, lavorando da trent’anni nello stesso ufficio, senza un giorno di assenza, immerso nelle scartoffie e nei timbri, abituato da anni, come tutti i suoi colleghi, a “perdere tempo” invece che lavorare, senza mai prendere alcuna iniziativa per risolvere i problemi della gente.

Vedovo, ha dedicato tutta la propria esistenza al figlio Mitsuo (Nobuo Kaneko) che ora sembra più interessato ai soldi della sua pensione che ad altro: rendendosi conto di non aver vissuto affatto, si sente motivato a trascorrere i giorni che gli rimangono al massimo e, come l’Idiota di Dostoevskij, anche lui vorrebbe trasformare “ogni minuto in un secolo di vita”.

Considerato da Bazin “il più bello, il più sapiente e il più commovente dei film giapponesi”, Vivere, lontanamente ispirato a La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, è il ritratto di un uomo che, per beffardo paradosso, morendo impara a vivere, è una parabola amara sulla caducità dell’esistenza, dello stesso livello di capolavori come Il posto delle fragole di Bergman, Umberto D di De Sica e Quarto potere di Welles, è l’avventura interiore di un uomo comune che sa di aver fallito e che cerca di riscattarsi, dapprima cercando di recuperare il tempo perduto tuffandosi nei piaceri della vita notturna, poi, non trovando nei paradisi della trasgressione una ragione di vita, maturerà una consapevolezza più profonda, dando fondo alle ultime energie per realizzare un parco giochi nel quartiere povero di Hureocho che lui stesso aveva in precedenza insabbiato.

Vivere è uno dei film più intensi ed emozionanti sull’uomo di fronte alla cessazione dell’esistenza, messo in scena con profonda semplicità e grande forza espressiva e arricchito da numerosi simboli disseminati qua e là e da sequenze memorabili che testimoniano il contrasto tra una vita vissuta dentro una rigidità emotiva e un’altra che ha preso consapevolezza che tutto sta sbiadendo, tutto sta stringendo e che per questo motivo bisogna affrettarsi perché come viene detto nella Canzone della Gondola, cantata da Watanabe ad un certo punto del film, “La vita è così breve, affrettati ad amare finché le tue labbra sono ancora rosse, prima che tu non possa amare più”.

Costituiscono un esempio mirabile il primo piano della pallina da flipper, simbolo della vita in balìa degli eventi, l’altalena che dondola come il pendolo di un orologio, riferimento al tempo percepito che sembra allargarsi e restringersi, quel tempo di cui si percepisce la misura quando si viene a conoscenza che ad un certo punto si bloccherà, il cappello bianco, testimonianza del cambiamento interiore del protagonista che fa da contraltare al primo piano di Watanabe, straziato e pensante, i cui occhi rigonfi di angoscia e rimpianto, da cane bastonato, racchiudono un mondo che si sta sgretolando, un’anima che sta sbiadendo.

Watanabe, dopo aver condotto una vita grigia e priva di scopo, dopo aver trascinato i suoi giorni nell’indifferenza, comincia ad assaporare i piaceri del vivere e a riscoprire la gioia di una giovinezza perduta attraverso due personaggi importanti: uno scrittore squattrinato (Yunosuke Ito), una sorta di Mefistofele che però non vorrà in cambio nessuna anima, che lo porta con sé in un tour di locali notturni, sale da ballo, cafè chantant e la vitale ex collega Toyo (Miki Odagiri), attraverso cui riscoprirà la fanciullezza e la spensieratezza ma anche l’importanza di rendersi utile e di non vivere nel deserto di una vita senza emozioni.

Vivere è anche il ritratto sarcastico e spietato di una categoria sociale, la burocrazia, che tutto stritola nel rimandare ad altri uffici o a ‘ domani’ quello che può essere fatto oggi, che si prende meriti non propri e che continuerà a vivere rifugiandosi nell’abitudine e nell’ipocrisia anche dopo la morte di Watanabe, come è ben sottolineato nella sequenza in cui si vede un collega sussultare di fronte ad una richiesta, ma poi assopirsi scomparendo sommerso dalla montagna di scartoffie.

Un film indimenticabile, che sa riflettere, come nel precedente Rashomon, sul concetto di verità relativa, espresso in maniera sublime nella sequenza della veglia, dove tutti coloro che hanno conosciuto Watanabe hanno idee diverse su di lui, un grande classico che non tramonta mai, che ci sorprende ancora oggi per la profondità dei temi trattati, un manifesto dell’attenzione per l’uomo che non si rassegna e che sente il dovere di vivere quando scopre che la sua vita è diventata un mero ticchettio di lancette.
Lascia un commento