di Bruno Ciccaglione

Se con l’album Nebraska Bruce Springsteen aveva raggiunto e convinto anche un pubblico diverso da quello già conquistato con le travolgenti esibizioni dal vivo con la E Street Band da metà degli anni ’70, il film di Scott Cooper – che racconta la realizzazione di quell’album e i tormentati anni che precedettero l’enorme successo di massa – arriva quando ormai Springsteen è un’icona non solo del rock, ma anche di un certo modo di essere statunitensi forse destinato ad estinguersi.
In un certo senso Springsteen era un alieno allora come lo è ora, sia pure per ragioni molto diverse: allora per la ostinazione con cui difendeva la propria integrità artistica di fronte alle sirene del successo ed indugiava nel cercare umanità negli ultimi, negli sbandati e perfino nei serial killer protagonisti di quelle canzoni, in piena era reaganiana; oggi alieno perché sia per sensibilità artistica che per coscienza sociale appartiene a un mondo che le giovani generazioni non hanno mai conosciuto.

Il film di Scott Cooper nasce dal bel libro di Warren Zanes – Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska, tradotto e pubblicato in italiano da Jimenez Edizioni. Una scelta particolare, perché il libro è sì il racconto della realizzazione dell’album più anomalo che Springsteen abbia mai pubblicato, realizzato nella camera da letto della sua casa dell’epoca, ma è soprattutto un saggio, un’analisi di un’opera e della sua singolare origine, oltre che dell’impatto dirompente che essa ebbe tra i cantautori negli USA e nel mondo culturale dell’epoca: una lettura imperdibile e ricchissima di spunti anche e soprattutto dopo aver visto il film, che inevitabilmente lascia fuori dal quadro molti elementi significativi.

Inoltre il film si avvale direttamente della supervisione, sin dalle prime fasi di realizzazione, di Springsteen stesso, che sarà addirittura decisivo nella scelta più importante, quella dell’attore protagonista, Jeremy Allen White, e che presenzierà alle riprese e alle registrazioni delle canzoni passo dopo passo. Il risultato è una accuratezza nella ricostruzione storica notevole (perfino degli episodi familiari, sia dell’infanzia che dell’età adulta), che fortunatamente non sfocia in un’opera agiografica, cosa del resto difficile quando si mette in scena un artista in un momento di crisi personale e artistica. Se in alcuni passaggi il film risulta forse un po’ didascalico, alla fine si può dire che la messa in scena della solitudine e della depressione sia credibile e coraggiosa (la depressione è stato un vero tabù e Springsteen si risolverà a parlarne pubblicamente soltanto nel suo libro autobiografico Born to run del 2016).

È molto bello il modo in cui viene raccontato il processo creativo con cui Springsteen arriva alla scrittura delle canzoni di Nebraska. Lo Springsteen del 1981 e ’82 non è ancora l’intellettuale formato e consapevole che diventerà negli anni, eppure è già molto capace di capire l’importanza di conservare la propria integrità artistica, come di cogliere i rischi insiti nel successo. Un dilemma tipico di tutta la storia del rock: come mantenere il legame con il mondo popolare e addirittura di povertà da cui si proviene e di cui si racconta nelle canzoni, mentre il successo ti trasforma in una rockstar?
Molto bello anche come sono mostrati i luoghi in cui il film si svolge: la provincia americana, i ristoranti di terz’ordine dove avvengono gli incontri tra Springsteen e il suo manager e produttore Landau o dove lavora la ragazza che Bruce frequenta, Faye, il contrasto tra la bellezza un po’ desolata dei boschi del New Jersey in cui si rifugia Springsteen e la metropoli New York coi suoi grattacieli, dove persino lui va a lavorare. Il titolo italiano non rende a pieno questo racconto dei luoghi, il sentirsi perso in un “nowhere”, un “nessun luogo”, quindi con una connotazione legata allo spazio geografico, mentre il “nulla” del titolo italiano è una parola più astratta.

Springsteen si ritrae dalle luci del palcoscenico e si nutre di letteratura (i racconti di Flannery O’ Connor, non a caso cattolica come Bruce, nell’America puritana e moralista dei tanti rivoli protestanti degli USA), di cinema (La morte corre sul fiume di Charles Laughton, ma soprattutto La rabbia giovane di Terrence Malick, titolo originale Badlands, che Springsteen aveva già usato per il suo inno da working class nel 1978) e naturalmente di musica (da Mansion on the hill di Hank Williams, che ispira Springsteen per il brano più esplicitamente legato alle esperienze infantili, alla allucinata e spietata Franke Tierdrop dei Suicide). Come ogni buon membro della working class Springsteen lavora anche se non sta bene, scrive, ricerca, si lascia scuotere da questi stimoli, per poi la notte andare a sfogarsi sui palchi dei localetti del New Jersey, insieme ad amici musicisti meno famosi di lui.

Infine a fare da detonatore al processo creativo è la scoperta, attraverso il film di Malick, del fatto di cronaca a cui era ispirato, riguardante una delle prime storie di serial-killer degli USA degli anni 50, quella di Charles Starkweather, che ispira il primo e più sconvolgente dei brani di Nebraska, quello che darà il titolo all’album. Decisivo, come mostrato benissimo nel film, il momento in cui Springsteen, dopo le prime stesure, passa dal racconto in terza persona a quello in prima persona: pericolosamente, l’artista indugia nella esplorazione del proprio lato oscuro, fino a identificarsi con il pluriomicida: seduto sulla sedia elettrica, in attesa della esecuzione, il killer si rivolge all’ascoltatore chiamandolo Sir (signore), rievocando la catena di delitti compiuti più o meno casualmente (“Me and her went/for a ride, sir/and ten innocent people died”, “Io e lei siamo andati a fare un giro, signore, e dieci innocenti sono morti”). Per la scrittura di canzoni, almeno negli USA, si tratta(va) di qualcosa di inaudito! Grandissimi songwriter come Steve Earle hanno citato come fondamentale l’ascolto di Nebraska per aprire la strada a un modo nuovo di scrivere ed interpretare canzoni. Per una generazione di cantautori americani Springsteen da allora sarà soprattutto “quello che aveva fatto Nebraska”.
Non erano dunque le scelte musicali, pur radicali, a spaventare i discografici che speravano di avere da Springsteen delle hit, nell’epoca in cui nasceva MTV e i videoclip musicali e che si trovarono invece davanti a un disco acustico, intimo, registrato con mezzi di fortuna e praticamente non finito, da un artista che aveva la ferma volontà di non promuoverlo sui media e di non fare un tour per farlo conoscere. A spaventare erano proprio i contenuti e le storie tragiche o addirittura truci che queste canzoni raccontavano. Se più tardi, travolti dall’energia di una band in stato di grazia, come si vede nel film, si potrà travisare per decenni una canzone di protesta politica come Born in the USA, qui non c’è possibile redenzione né speranza, neppure puramente musicale. La Reason to believe, la ragione in cui credere con cui si chiudeva Nebraska, si rivelava in quell’album come pura superstizione per ingenui un po’ ridicoli (“struck me kinda funny”, cantava Springsteen). Jeremy Allen White ha raccontato che su questo punto il confronto con Springsteen era stato piuttosto ruvido: all’attore, che riteneva di trovare elementi di speranza in questo brano, Springsteen aveva risposto “This is not note the case” (non è affatto così).
Non così, e per fortuna, nel film, che invece ci fa intravedere la luce in fondo al tunnel in cui si trovava personalmente Springsteen in quel periodo.

Infine, non si può non spendere qualche considerazione su Jeremy Allen White, senza il quale questo film semplicemente non sarebbe stato possibile. Come ha spiegato Springsteen, c’era una certa rassomiglianza fisica e di portamento, ma c’era soprattutto un attore capace di far trasparire le proprie emozioni davanti alla macchina da presa. White, inoltre, ha cantato tutti i brani che ascoltiamo durante il film e si è trattato di un lavoro impressionante, che riesce a non sfigurare con l’originale, ma senza scadere nella imitazione.

Come nel caso di altri biopic musicali recenti (A complete unknown e Elvis su tutti), è stato l’aiuto come coach di Eric Vetro a preparare l’attore, in un arco di sei mesi, a cantare le canzoni che erano previste in sceneggiatura. Le parti vocali di White, per ragioni produttive, ovviamente sono state registrate prima delle riprese, tranne che nel caso di Atlantic City. La registrazione di quest’ultima era infatti prevista dopo la registrazione di Born in the USA, nello stesso giorno, ma dopo aver registrato questa White aveva completamente perso la voce (e pensare che Springsteen la canta ogni sera dal 1984…). Aveva provato poi a incidere Atlantic City in vari altri momenti di pausa delle riprese, senza mai trovare la chiave giusta e così se l’era trascinata come una ossessione, fino a riuscire a renderla in modo credibile solo a film ultimato.

White suona, diciamo così, anche la chitarra. Come gli ha spiegato JD Simo, il chitarrista ingaggiato dalla produzione per metterlo in grado di apparire credibile durante le riprese, non puoi imparare a suonare la chitarra in 6 mesi, il massimo che puoi fare è cercare di approcciare al meglio quei cinque brani in cui devi tenere la chitarra in mano nel film.
Ma sono le doti di attore che rendono l’interpretazione notevole, capace di rendere il lato sofferente e insicuro dell’intimità, come quello rabbiosamente determinato dell’artista che si batte perché la musica che lui ritiene importante abbia la precedenza su quella che tutti gli altri trovano eccitante e divertente. Bella anche la prova degli altri attori, a partire dalla bravissima Odessa Young, che interpreta il solo personaggio di finzione del film, Faye Romano, che riassume in una figura femminile unica le varie ragazze che per periodi brevi si erano frequentate con Springsteen nel periodo in cui si svolge la vicenda. Jeremy Strong e Stephen Graham, pur in piccoli ruoli, tratteggiano bene i personaggi dell’agente, produttore e amico John Landau e del complicato padre di Springsteen, Douglas. Due figure che appaiono centrali, per Springsteen.

Deliver me from nowhere aiuta a svelare al grande pubblico un lato meno conosciuto dell’opera di Springsteen, mostrando come dentro di lui convivessero tante anime diverse e restituendo un quadro più completo di questo artista che, molto più di quanto si creda, ha lasciato che le sue paure e le sue fragilità avessero piena cittadinanza nella sua opera. Nebraska spalancò la porta sull’abisso interiore che abitava la rockstar nata per correre, “quello con la chitarra elettrica”, che era però la stessa persona che doveva prendere atto della possibile fine del sogno americano o del suo trasformarsi nel suo opposto.

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