di Roberta Lamonica
“Here thou, great Anna! whom three realms obey,
Dost sometimes counsel take – and sometimes tea.”
Alexander Pope, The Rape of the Lock (1712)

Yorgos Lanthimos (The killing of a sacred deer, Dogtooth, The Lobster, Alpes) deve aver letto il poema eroicomico tagliente e sferzante di Pope in cui Il narratore, in disparte, osserva quanto sta accadendo alla corte della regina Belinda (Anna) e lo racconta sarcasticamente divertito, e deve averne tratto spunto per il tono satirico generale del suo ultimo lavoro, La Favorita.
Il cineasta greco focalizza la sua attenzione su un periodo circoscritto della storia inglese, il regno dell’ultima regina di casa Stuart, Anna. Fedele nella ricostruzione dei fatti e abile nel rendere lo spirito del diciottesimo secolo, Lanthimos si spinge oltre: lascia ai margini del suo film gli imponenti eventi politici, seppur importanti e determinanti per il futuro glorioso dell’Inghilterra come potenza mondiale, e si concentra sulla parte intima, privata e caratterizzata da feroci intrighi di corte, della monarca britannica. Il risultato è un film che è al contempo sontuoso e impudico, grottesco e inquietante, tetro e affascinante.
La ricostruzione storica è fedele, dunque. La regina Anna passò parte del suo regno invischiata in un triangolo ‘amoroso’ con la sua amica e confidente di sempre, Sarah Churchill, e una cugina alla lontana di quest’ultima, Abigail Mashan. I rapporti della regina Anna con queste due donne furono sicuramente carichi di una certa dose di ossessione e di tensione erotica. Se essi siano stati effettivamente fisici e sessuali non è certo e lo si può solo inferire da una corrispondenza molto esplicita di cui ci è rimasta testimonianza diretta.
Al di là delle evidenze storiche, La Favorita è però un film che guarda alla storia e al passato con i piedi ben piantati nel presente. E il presente di Lanthimos è livido, crudele, impietoso. È un presente in cui i rapporti umani sono corrotti dalla sete di potere, da un’ingiustizia sociale senza redenzione, dalla mancanza di fiducia nella natura buona degli individui.
E l’uso peculiare del mezzo tecnico in questo film esplicita ancora una volta questo suo punto di vista. L’uso del fish-eye in questo contesto dà la sensazione di guardare l’apparentemente controllata e monotona quotidianità dei personaggi attraverso un Oeil de Sourciere miroir che li distorce e li allunga, a tratti proteggendoli, a tratti scoprendoli, a tratti tradendoli.

La corte della regina Anna diventa un luogo reale e vivido di estremi visuali ed emozionali, perfettamente in linea con i tratti grotteschi dell’epoca come si evince da dettagli bizzarri quali la gara delle anatre, le coreografie assurde e la regina gottosa.
L’atmosfera generale de La Favorita rimanda più a quella de ‘I misteri del giardino di Compton House’ di Peter Greenaway che a quella del ‘Barry Lyndon’ di Kubrick, cui qualcuno ha accostato il film di Lanthimos. E con Greenaway, La Favorita condivide anche gli splendidi costumi a firma dell’ottima Sandy Powell. Sarà una suggestione evocata dai conigli che affollano la stanza della regina e si dissolvono nella scena finale, ma Rachel Weisz in giacca e pantaloni ricorda il Cappellaio Matto mentre gli abiti dell’epoca assumono un taglio e un gusto modernissimi, con i tagli al laser e i gonnelloni monocromatici a pois che sembrano anch’essi grottescamente usciti direttamente da Alice in Wonderland.

La fotografia di Robbie Ryan, che si aggira furtiva e ondivaga da un punto all’altro dell’inquadratura, contribuisce a questo effetto ‘modernista’. Ryan ci offre uno sguardo sbilenco e frastornato sulla vita di palazzo, una realtà non connessa a un tempo e un luogo specifici. Come in Alice in Wonderland si guarda a ciò che succede nel mondo di là (il palazzo e la stanza da letto della regina) attraverso la buca del Bianconiglio. Ciò che succede all’interno della camera ha portata spropositatamente e paradossalmente maggiore rispetto a ciò che succede fuori, ma che resta, per l’appunto, fuori.
In questa atmosfera a metà tra incubo e sogno, ci sono le interpretazioni, vere, potenti e convincenti delle tre protagoniste: Olivia Colman (Anna), Rachel Weisz (Sarah) ed Emma Stone (Abigail).

Tre Parche, più che tre Grazie… intente a filare, dipanare e tagliare i fili della loro storia personale e quelli della storia delle altre due.
Un film al femminile, quello di Lanthimos. Eppure non si può dire che il regista greco abbia fatto un film femminista. In realtà Lanthimos fa di queste donne degli individui universali e non inscrivibili in un unico genere, mostrando caratteristiche comportamentali comuni sia alle donne che agli uomini in presenza di situazioni di lotta per il potere. Egli delinea in maniera fedele la realtà storica dei suoi personaggi in modo da non doversene preoccupare e potersi invece esprimere al meglio nell’indagine delle loro motivazioni.
Sarah e Abigail usano tattiche e strategie differenti per arrivare al cuore della sovrana, perché essenzialmente sono spinte da motivazioni differenti. Sarah nasce potente e vuole lasciare il suo segno nella realtà politica della sua epoca e del suo Paese. Fortunata e forte nel suo matrimonio (d’amore) con il duca di Marlborough, la Churchill manipola e gestisce la regina esercitando la sua maggiore sicurezza personale e cognizione politica tradizionalmente appannaggio dei ‘maschi’.

Abigail subentra nella vita di Anna in un momento in cui Sarah è impegnata in affari di Stato e, come un marito distratto, la lascia sola. Abigail, più femminile e subdola, fa leva sulla debolezza emotiva e sentimentale di Anna, sulla sua femminilità frustrata, sulla maternità negata per far breccia dentro di lei. Ma i mezzi più ambigui di Abigail sono dovuti essenzialmente alla necessità. Abigail deve preservarsi. Abusata, esclusa e impoverita, ella ha l’unica ambizione di risalire la scala sociale. Per questo è perfettamente a suo agio nel microcosmo del palazzo con tutte le sue contraddizioni e limitazioni. “L’amore è un lusso”, dirà nel 1831 Honoré de Balzac ne La pelle di zigrino e, quando Abigail dice “quando finirò in strada… una salda moralità sarà un’assurdità che mi schernirà quotidianamente”, il film cattura una grande verità storica. Per le donne che non hanno nulla nel diciottesimo secolo e per molto altro tempo ancora, la morale, l’amore e la possibilità di scelta sono un lusso che non ci si può concedere.
Ma dove Rachel Weisz e Emma Stone brillano con le loro interpretazioni, Olivia Colman rifulge come un diamante preziosissimo. La sua regina Anna è perfetta.

Trascinata dagli eventi, non educata al suo ruolo e viziata come una bambina mai cresciuta, è tormentata da emozioni per la cui lettura non ha chiavi né permesso. Il terrore del ruolo e il fardello di una vita senza libertà o gioia si manifesta in una fisicità vessata, esposta nei suoi dolori e nelle sue sofferenze. Porfiria, vaiolo e infezioni oculari adolescenziali lasciano segni visibili sul corpo della regina e cicatrici indelebili nell’anima della donna. Una donna che vorrebbe sentirsi ‘normale’, libera di comportarsi come una borghese qualunque nell’intimità (parlava di sè e Sarah Churchill come ‘Mrs Morley’ e ‘Mrs Freeman’), ignorando completamente le etichette reali ma che il destino ha creato per altro, qualcosa di troppo grande da poter reggere sulle proprie gambe malferme e inferme. Olivia Colman riesce a rendere magistralmente tutte le sfumature di un personaggio così complesso e ‘immenso’, portando tratti di ilarità, dolcezza e profonda umanità in un film altrimenti freddo e respingente per il suo volutamente insistere sulla finzione e crudeltà dei rapporti umani.
Anna che urla infastidita alla vista di bimbi che cantano, Anna che lascia indispettita la sala da ballo, Anna che si diverte a creare gelosia e competizione tra le due favorite, Anna che quasi sviene, incapace di gestire l’emozione, quando abbraccia un neonato. Anna che capisce di essere raggirata e, nell’ultima scena, rivendica il proprio ruolo e ricorda a tutti che il potere, la forza, il comando sono nelle sue mani, che decidono cosa le mani di Abigail…debbano fare.

Olivia Colman da Oscar e Lanthimos a un punto davvero alto della sua cinematografia.
Da non perdere.
Brilliant!
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