“Dovremmo considerare persi i giorni in cui non abbiamo ballato almeno una volta”
(Friedrich Nietzsche)

Un cinema insolitamente fiabesco e piacevolmente demode’ quello proposto da Thomas Stuber, autore acclamato nei festival di tutto il mondo e ora atteso dal 14 febbraio al banco di prova con il grande pubblico.
A prima vista ‘Un valzer tra gli scaffali’ può essere superficialmente etichettato come il classico film da festival, osannato dai critici e conforme all’occhio clinico di una platea esigente capace di spingersi oltre il puro giudizio personale. In effetti, rendere appetibile e avvincente una storia ambientata quasi esclusivamente nei grigi interni e negli infiniti corridoi illuminati solo da luci artificiali di un gigantesco ipermercato all’ingrosso non è impresa da poco, a meno che non ci si chiami Aki Kaurismaki.
Stuber non possiede (e probabilmente non gli interessa) la vena surreale e grottesca del regista finlandese, ma è giustamente convinto dei propri mezzi e in virtù di ciò non ha paura di addentrarsi su un terreno accidentato e scivoloso come sabbie mobili. Adattando il racconto breve di Clemens Meyer ‘In Den Gangen’, costruisce una toccante parabola esistenziale sulla monocorde quotidianità di un microcosmo dal genoma profondamente tragico, ma dotato di un eccezionale istinto di sopravvivenza che sarebbe errato scambiare per mera rassegnazione.

Il risultato sembra dargli ragione perché, seppur con qualche perplessità dovuta a un sottile autocompiacimento che affiora qua e là, il suo film permeato da un’ inevitabile ombrosità di fondo centra il bersaglio, grazie ad una narrazione leggiadra e accattivante che ben si sposa con le tematiche affrontate. Christian è un ragazzo introverso e taciturno assunto in prova come scaffalista notturno presso un angusto supermercato alla periferia di una desolante e anonima cittadina tedesca. Un non luogo dove un pugno di anime confuse nell’ oscurità della notte condivide un tempo statico e inesorabile, modellato su una logorante e impietosa routine che però non vieta loro di giocare con la fantasia e cosa più importante di innamorarsi.
Eh sì, perché anche nel posto più improbabile del mondo, al cuor non si comanda e lo sa bene Christian dinnanzi all’ ambigua e intrigante Marion che non impiegherà molto a farlo capitolare tra sguardi complici e amichevoli prese in giro.
Una storia d’amore sussurrata, sognata, pudicamente vissuta fra le pieghe del ‘vorrei, ma non posso’ e magicamente evocata nella sua impossibilità di compiersi. Siamo di fronte alla miglior relazione possibile, ma non è dato sapere l’inevitabilità del loro futuro amoroso. Di certo i magnifici Franz Rogowski e Sandra Huller sanno emozionare come pochi e regalare autentici lampi di luce attraverso piccoli gesti inaspettati come il tenerissimo bacio all’eschimese.

Stuber lavora sui dettagli focalizzando l’ attenzione sull’interiorità dei personaggi esplorando abilmente le zone d’ombra più o meno evidenti per evidenziare al massimo la profonda umanità intrinseca in ognuno di loro. Il tutto accompagnato dalle note sublimi di ‘Sul Bel Danubio Blu’ di Johann Strauss e dalla divina suite n. 3 di Johann Sebastian Bach, musica celestiale in grado di trasformare gli elevatori per la movimentazione delle merci in abili danzatori di valzer. E di creare una realtà, o meglio una versione migliore della realtà completamente avulsa dal mondo circostante.
La riuscita della pellicola risiede proprio nella sua volontà di osare, di andare oltre a quello che alle volte ci viene ingiustamente imposto, perchè ognuno di noi possiede al suo interno una stella danzante, capace di richiamare in qualsiasi momento il rumore del mare.
Laura Pozzi