Toby Dammit (1968), di Federico Fellini

di Laura Pozzi

“Eppure io credo che se ci fosse un pò di silenzio, se tutti facessimo un pò di silenzio, forse qualcosa potremmo capire….”

(La voce della luna, 1990)

Toby Dammit, mediometraggio girato nel 1968 da Federico Fellini è sicuramente l’episodio più riuscito di Tre passi nel delirio film collettivo realizzato insieme a Roger Vadim e Louis Malle. L’idea di una pellicola ad episodi molto in voga nell’Italia di fine anni ’60 ispirata ai Racconti straordinari di Edgard Allan Poe aveva particolarmente entusiasmato il produttore francese Roland Eger che in collaborazione con Alberto Grimaldi decise di dar vita ad un’insolita e curiosa coproduzione artistica già precedentemente sperimentata. Toby Dammit a prima vista può apparire come una cupa stravaganza o un’amabile spavalderia nella filmografia (fino a quel momento) di un autore acclamato in tutto il mondo, osannato dalla critica e vincitore di ben tre premi Oscar per La strada (1954), Le notti di Cabiria (1957) e Otto e mezzo (1963). Tuttavia quando si tratta di Fellini ogni ipotesi decade, ogni supposizione maschera una fuggevole caducità rivelando l’imprescindibile componente autobiografica presente in ogni opera. Quest’episodio tratto liberamente dal racconto Non scommettere la testa col diavolo non fa eccezione, rivendicando un posto d’onore tra le inquietudini inespresse di un particolare e tormentato periodo della sua esistenza. Terminate le riprese del disorientante e spartiacque Giulietta degli spiriti (1965), Fellini comincia a mostrare i segni di una pericolosa insofferenza che lo porterà a chiudere definitivamente i rapporti con alcuni dei suoi più stretti collaboratori fra i quali Ennio Flaiano e Angelo Rizzoli.

Per scongiurare il ritorno dell’invalidante e sempre in agguato “male oscuro” già presente nella sua vita dai tempi de La strada (1954), si affida alle cure del noto e junghiano terapeuta tedesco Ernst Bernhard, ma soprattutto rimette mano ad un progetto mai ultimato che diverrà in breve la sua “magnifica” ossessione: Il viaggio di G. Mastorna. “Il film non realizzato più famoso della storia del cinema”, così lo definì Vincenzo Mollica sottolineando la travagliata genesi di un copione nato agli inizi degli anni Sessanta (sceneggiato di Dino Buzzati) e naufragato più volte in seguito a svariati motivi. La storia prende avvio sulle nefaste intemperanze di una furiosa tempesta di neve che vede coinvolto l’aereo dove viaggia Mastorna un clown violoncellista impegnato in un tour. Dopo vari accorgimenti il velivolo riesce miracolosamente ad atterrare nella piazza principale di un’imprecisata località nordica dominata da un imponente cattedrale gotica. Inizia così un surreale viaggio che non troverà compimento e realizzazione, ma profetizzerà quel temuto Aldilà dal quale è impossibile sottrarsi se non contrapponendo l’unicità del sogno.

Il riferimento a Mastorna è d’obbligo per avvicinarsi  alla singolare ed eccezionale natura di Toby Dammit. E.A. Poe è quasi del tutto assente in questa rivisitazione felliniana, ma il regista riminese ne rispetta l’origine giocando abilmente sui crismi di un’ autoreferenzialità ostentata, ma mai compiaciuta. Gli angoscianti titoli di testa impreziositi dalle note di Nino Rota evocano una tenebrosa atmosfera delineando fin dall’inizio il carattere ultraterreno della storia. Nel cielo sinistro e rovente di una Roma astratta e delirante è in procinto di atterrare Toby Dammit (lo splendido emaciato Terence Stamp) giovane attore inglese in precoce declino dedito a droghe ed alcol. Chiamato ad interpretare un western “cattolico” in cambio di una Ferrari ultimo tipo, il funereo e apatico Dammit evidenzia un’allarmante e inspiegabile avversione per la città eterna e per tutto ciò che lo circonda. Solo l’apparizione di una fantasmatica ed eterea bambina vestita di bianco che lo invita a giocare a palla sembra ridestare la sua attenzione. Ospite d’eccezione negli studi di Cinecittà per ricevere in premio la lupa d’oro e per presenziare tutti i convenevoli di quel terrificante baraccone mediatico popolato da esseri immondi e chiassosi, alla domanda se crede in Dio oppure no, confessa sardonico di credere nel diavolo. Entrato finalmente in possesso dell’agognata auto, si lancia a velocità supersonica sulle “strade  perdute” di una capitale distopica, deserta, agonizzante.  Arrivato nei pressi di un ponte interrotto, accetterà l’invito della mefistofelica bambina, proseguendo la sua folle corsa e mettendo la parola fine su quel delirio orrorifico.

In poco più di quaranta minuti Fellini mette in scena o meglio in mostra le profonde inquietudini e lacerazioni di un uomo e di un’artista sempre troppo “avanti” coi tempi, incapace di sottostare alle sterili e asfittiche prospettive di un reale sempre più simile ad uno zombie. Giunto ad un punto di svolta nella sua carriera artistica, il maestro sembra averne abbastanza del cinema, quel mondo dorato a cui deve tanto, ma al quale ha donato altrettanto. Il “cimitero vivente” a cui assistiamo insieme al protagonista ha ben poco a che vedere con Poe, ma molto con i suoi capolavori precedenti. Toby Dammit è un Otto e mezzo in salsa horror, brutto, sporco e cattivo (magistralmente fotografato da Peppino Rotunno), dove regna una “dolce vita” amara e corrotta, destinata a sfociare nel boomerang tecnologico della “cattiva televisione”. Siamo nel 1968, ma Fellini ha già intuito tutto e predetto il nulla culturale che ci attanaglia. Un discorso che porterà avanti in E la nave va (1983) e Ginger e Fred (1985) pregevoli opere della maturità finite ingiustamente nel dimenticatoio. Ma Toby Dammit col suo biglietto di sola andata per l’inferno è anche fratello minore di quel Mastorna che non vedrà mai luce, ma che consentirà al suo autore di non abbandonare mai la settima arte. Accusato spesso di aver “rubato” la bambina con la palla a Mario Bava in Operazione paura (1966), in realtà quest’episodio può vantare innumerevoli tentativi d’imitazione: la sfrenata corsa in auto di Terence Stamp non può non  ricordare quella di Malcolm McDowell e i suoi drughi in Arancia Meccanica (1971) così come la scena iniziale all’interno dell’aereo elargisce suggestive analogie con il finale di Lisa e il diavolo (1973) sempre del grandissimo Bava. Se così fosse una tacita e affettuosa resa dei conti fra i due. Ma Fellini con il suo estro e genio riesce a farsi perdonare quasi tutto e a far piroettare alto il suo cinema anche in presenza di gravità. Perché “egli danza” e a rammentarcelo non è uno qualunque, ma un certo Orson Welles (La ricotta, 1962).      

       

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