- di Andrea Lilli
Propizio è avere ove recarsi
(I Ching – Il Libro dei Mutamenti)
Agente matrimoniale: “Non muoverti. Fammi un sorriso. Mostra i denti! Posa una mano sul fianco, come una modella. Molto bene.”
Pamela: -“Io voglio un uomo… che faccia la doccia. Che sia pulito. Un francese.”
Agente (ride): “Perché francese?”
Pamela: “Si sa… Loro sono… carini. Ti parlano con gentilezza. Ti aiutano nelle pulizie di casa.”
Agente: “Sì, sì, ok. Non preoccuparti. I nostri clienti sono seri. Benestanti.”
Pamela: “Signora… Non voglio ritrovarmi con un pappone… come si vede alla TV.”
Siamo in Romania. Pamela (Alina Șerban) è una ragazza madre Rom che non ce la fa più a vivere con la piccola Bébé e la nonna burbera. I soldi sono pochi e la casupola troppo stretta, in un villaggio che è pieno di neve d’inverno, ma senza acqua corrente tutto l’anno. Vuole un’abitazione vera, una sicurezza economica, una vita sua. Pretende un’esistenza meno squallida. Anche se ha un carattere forte e indipendente, sogna un amore, un uomo che le risolva ogni problema. Si rivolge dunque ad un’agenzia matrimoniale.
Allevando da sola la figlia, Pamela non è andata a scuola, non sa scrivere, ignora il francese e altre lingue, ma tutto ciò non frena la sua decisione. Prende l’aereo per il Belgio, la sua salvezza. Riassunto degli handicap di partenza: è una madre single, rom, analfabeta, povera. Non sono pochi, in un’Europa ancora piena di razzisti e misogini. D’altra parte è coraggiosa, sveglia, bella, di una bellezza speciale: la rendono attraente la carica vitale, la disponibilità, la forza d’animo – o della disperazione. La regista Marta Bergman dice che appena iniziò il provino di Alina Șerban vide in carne e ossa la Pamela che aveva immaginato. E da parte sua, è evidente come l’attrice non abbia fatto alcuna fatica ad immedesimarsi nel personaggio. Dunque Pamela rompe con la nonna, affida al giovane amico Marian la bimba, indossa il vestito migliore e lascia un destino di miserie per un altro di speranze. Per il viaggio ha speso ogni risparmio, ha venduto pure il cellulare, in mano ha solo un indirizzo strano e un nome: Bruno (Tom Vermeir).
E’ un uomo grigio, spento, anaffettivo, che se da una parte sembra invecchiato precocemente, dall’altra presenta comportamenti impacciati da adolescente. Però a modo suo è dolce, gentile come voleva Pamela, paziente. Capisce di avere certi limiti e si sforza – un pochino – di superarli.
Queste due solitudini unite per procura sono due mondi tra loro lontanissimi. Cercano con umiltà l’improbabile chiave di un rapporto di coppia che li faccia felici, o almeno meno infelici di prima. Pamela si è lanciata in una sfida enorme, in casa e fuori. Non ha in mente solo la sicurezza economica: vuole imparare il francese a scuola, saper leggere e scrivere, trovare un lavoro, dare amore a Bruno e averne da lui, riempire di senso e di sensi le loro vite. Bruno non riesce a corrispondere alle aspettative di lei, è meno generoso, più arido: trovando solo curiosa e folcloristica la selvaticità di Pamela, non riesce a scorgere in lei la donna nascosta, da riscoprire. Si accontenta di volerla educare alla civile convivenza, con l’obiettivo di farne un esotico angelo del focolare, affidabile, presentabile: la coniuge grata e rassicurante che fa tanto comodo agli uomini fragili.
Lei lo capisce, si sforza quanto può di accontentarlo, cerca di venirgli incontro, accetta l’addomesticamento, si adegua agli orari e spazi fissi di quelle pareti noiose, accoglie gli invadenti genitori e sopporta le cerimonie degli amici maliziosi di Bruno, mentre lui resta quasi fermo, chiuso in antiche morse mentali e affettive. E’ un procedere a due velocità, zoppo e stridente, che non può durare a lungo.
Con grande sensibilità per entrambi i caratteri dei personaggi, e senza rinunciare a sani momenti di ironia, la regista segue l’inevitabile fallimento di questo rapporto privo di vero amore, ma che serve alle due parti per imparare a conoscersi e rispettarsi davvero. Pamela per la verità ne esce meglio di Bruno perché ha un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio: non ha mai dimenticato la piccola figlia, la sua prinzesa, Bébé. E la recupererà, insieme alla consapevolezza che per la loro vita nuova non è così necessario l’Uomo-Marito, il mitico principe azzurro che prima riteneva indispensabile.
Provvidenziale deus ex machina nella vicenda è il giovane Marian (Marian Șamu), che a sua volta compie un percorso evolutivo interno insieme a quello geografico. E’ un personaggio secondario nella trama ma importante, in quanto unico ruolo maschile positivo.
Le altre figure di uomini, a differenza di quelle femminili, non sono molto incoraggianti.
Marta Bergman, nata in Romania e vissuta in Belgio, ha realizzato cortometraggi e documentari sulle comunità Rom in diversi piccoli centri romeni. Sola al mio matrimonio è il suo primo lungometraggio di finzione, che del documentario presenta diversi elementi strutturali: l’inserimento di personaggi e ambienti reali, i dettagli ravvicinati, i dialoghi spontanei, l’uso non doppiato di lingue diverse – qui sono tre: rumeno, francese, romanì. Notevole il matrimonio, stavolta felice, tra le intense musiche firmate da Vlaicu Golcea e le raffinate scelte fotografiche di Jonathan Ricquebourg. La canzone che ha il titolo del film è eseguita dalla nonna (Viorica Tudor), che nella realtà è una famosa cantante Rom.

Tra i riconoscimenti:
Presentazione nella sezione ACID (Association du Cinéma Indépendant pour sa Diffusion, Associazione di Cineasti) al Festival di Cannes 2018;
Menzione Speciale della Giuria e premio come miglior attrice ad Alina Șerban al Rome Independent Film Festival.
Distribuito da Cineclub Internazionale
In sala dal 5 marzo