di Roberta Lamonica
Captain Fantastic è un film del 2016 scritto e diretto da Matt Ross.
Protagonista del film è Viggo Mortensen, nei panni di un padre molto alternativo (‘flower power style’) che ha vissuto a lungo in una specie di isolamento volontario con la sua numerosa famiglia immerso nella Natura, lontano dalla superficialità finta e ingannevole della società capitalistica di cui pure è figlio e dal quale però rifugge come la peste.
Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2016, per poi essere proiettato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2016, dove ha vinto il premio per la miglior regia.
Una ‘quest’ moderna, dove il Santo Graal è rappresentato dall’omaggio alle spoglie terrene della matriarca di questa famiglia incredibile i cui membri si situano a metà strada tra creature elfiche della mitologia celtica e la tradizionale famiglia hippie come da immaginario collettivo. C’è di tutto in ‘Captain Fantastic’, dall’ ‘on the road’ movie al ‘coming of age’ film, passando attraverso il ‘mito del buon selvaggio’ di roussoviana memoria. In questa miscellanea di richiami letterari e cinematografici c’è la Domanda, il senso di tutto il film: si può scegliere di seguire un modello educativo antitetico a quello tradizionale? Si può declinare la propria vita prescindendo dal vortice del mondo?
Si può scegliere altro? Ben Cash ci prova. Ci provano i suoi figli, ci ha provato la moglie la cui assenza permea ogni singola sequenza, saturandola. È vero che il conflitto natura-civiltà viene portato nell’ambito familiare e per questo c’è il rischio di scadere nel cliché ripetutamente. Ma Ross è attento a non perdere mai di vista l’umanità dei suoi personaggi che, multidimensionali e polisfaccettati, fanno ridere, sorridere o anche piangere. L’autenticità del film si estende alla fotografia con luce naturale di Stéphane Fontaine e al montaggio ‘asciutto‘ e frizzante di Joseph Krings. Eppure sono i personaggi a risultare credibili in sè. MacKay, nel ruolo del figlio che sogna l’amore e la scoperta, ha il momento ‘primo bacio’ che azzera ogni stereotipo; Langella è fantastico nel riuscire a stratificare il ruolo del padre severo e inflessibile. E Mortensen è semplicemente magnifico: entra nel ruolo di questo padre amorevole che non ha paura di affrontare il mondo nudo eppure capace di ammettere teneramente che il suo spirito libero e arrogante possa nuocere ai suoi figli. Il film non prende le parti di nessuna delle due posizioni ma le espone in modo delicato, sottile e commovente. Il compromesso poco plausibile è confezionato con grazia in un finale accattivante dal punto di vista emozionale che però strizza l’occhio a un cinema dichiaratamente mainstream. E questo è un vero peccato.
Nel rito pagano della pira purificatrice svanisce il sogno di questa famiglia unica e il compromesso si mostra come l’unica via percorribile. ‘Sweet child o’ mine’...una ninna nanna che culla l’accettazione, ineluttabile e serena, del fallimento di una meravigliosa utopia.