di Roberta Lamonica
“Calmo devi stare, calmo. Sempre calmo. Ogni umiliazione la devi sopportare senza ribellarti; ogni ingiustizia senza protestare mai. Calmo, ti dico, sempre calmo. Perché geometra, voi che siete una persona istruita, ricordatevelo sempre: basta una girata di testa, una sola vi dico, perché voi dal carcere non ce la fate a uscire mai più”.
(Saverio Guardascione)
La totale insensatezza di una detenzione senza colpa, un incubo kafkiano, un errore giudiziario dovuto alle incompetenze di una burocrazia lentissima che spezza il sogno di un emigrato italiano in Svezia di tornare da vincente nel proprio paese per una vacanza, con la bella moglie svedese e i bei bimbi biondi. Giuseppe Di Noi (un Alberto Sordi strepitoso, Orso d’Argento al Festival di Berlino 1972) viene arrestato dopo il controllo passaporti (“Signor Di Noi vuole accomodarsi un momento in ufficio? È una semplice formalità…”) e si trova catapultato nell’inferno delle carceri italiane senza saperne il perché. I modi discutibili dei secondini, le ignobili pratiche di ispezione carceraria, il disprezzo dei passeggeri del treno, il senso di alienazione, il precipitare in un universo parallelo di ‘caldo e sporco’ che attanaglia i sensi. Gli occhi perennemente acquosi e la graduale perdita di senso dell’esistenza. Un’Italia attraversata da nord a sud su rotaie, in vagoni carcerari, dietro sbarre oblique, orizzontali, di metallo che coprono i volti e limitano lo sguardo.
TRAILER: https://www.youtube.com/watch?v=UF0-aepl6ZM
Detenuto in attesa di giudizio è un film del 1971 diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi. Da un’idea di Sonego, il film fu ispirato dal libro Operazione Montecristo, scritto in carcere da Lelio Luttazzi, e dall’inchiesta televisiva Verso il carcere, realizzata da Emilio Sanna. Il film si avvale della colonna sonora del grande Carlo Rustichelli.
Quando uscì nelle sale, Detenuto in attesa di giudizio suscitò grande scalpore, perché per la prima volta veniva fatto un film di denuncia sulla vergogna delle carceri, sulle lungaggini processuali, sulle condizioni igienico-sanitarie inaccettabili all’interno degli istituti di detenzione, sulla mancanza di un percorso riabilitativo per i detenuti. Nanni Loy fu accusato di aver trattato un tema così impegnato in modo superficiale, con cadute nel grottesco e nel macchiettistico. In effetti, molti dei personaggi secondari del film sono degli stereotipi: i secondini, tutti meridionali, il direttore del carcere, interpretato da Lino Banfi, caricatura del funzionario intrallazzino ed inefficiente, la stessa caratterizzazione di molti detenuti. Eppure, l’interpretazione credibile e gigantesca di Alberto Sordi diventa centro focale del film, e il suo calvario nucleo tematico dello stesso.
La macchina da presa si muove nervosa e frenetica; Loy, con il piglio da documentarista di Specchio Segreto, cattura immagini rapide, mosse, e inquadra quasi sempre dal basso verso l’alto come ad evidenziare quanto sia più grossa la macchina dell’apparato giudiziario rispetto al destino individuale di un uomo. Nanni Loy gioca su coppie di contrari per indicare l’opposizione ‘prigionia/libertà’. I detenuti viaggiano in treno, su binari (quelli della burocrazia giudiziaria), che non ammettono detours; la moglie di Di Noi, viaggia in auto – devia, si ferma, riparte – donna moderna che sovverte lo stereotipo della donna scandinava libera nei costumi (come volgarmente insinua il secondino) e, sorta di moderna Penelope, prova in tutti i modi a ‘salvare’ e aspettare il suo uomo.
Da questo punto di vista, il viaggio di Di Noi nelle prigioni italiane è assimilabile a quello di Odisseo ed è da intendersi come opposta metafora del ‘ritorno’, come definitivo allontanamento dalle proprie radici. Le prove che deve affrontare sono necessarie perché egli possa approdare in quel porto sicuro che rappresenta la sua nuova vita in Scandinavia. La libertà è rappresentata dai colori sgargianti delle calde giornate estive, mentre la prigione è un inferno senza colore, livido e buio. I suoni dall’esterno sono vitali, pulsanti, quelli della prigione sono lamenti da inferno dantesco. La disumanità e la perdita di identità progressiva, rappresentate anche dall’omessa consegna di effetti personali (la chitarra che giace tra gli oggetti dopo la morte di Guardascione è davvero dolorosa), dalla mancata risposta a telefonate, e di tutto ciò che leghi il detenuto alla sua vita all’esterno. Questo, unito alle condizioni inumane in cui si è costretti vivendo in carcere, porta alla progressiva perdita di senno e alla rabbia eversiva. Giuseppe Di Noi si ripete di star calmo ma la violazione della sua intimità, questo insistere sulla impossibilità di espletare i propri bisogni fisiologici, perché continuamente e inutilmente controllato, lo trasformano progressivamente in una maschera tragica. In una delle scene più terribili del film, Giuseppe defeca in un bugliolo, con lacrime silenziose negli occhi quando – al secondino che lo spia – risponde, ormai privato di ogni dignità, che “va bene, va tutto bene”.
In un microcosmo lurido in cui si va in galera per anni per aver rubato tre chili di olive, in cui secondini e segretari corrotti promuovono questo o quell’Azzeccagarbugli, in cui la Madonna cade, la Madre non è più ausiliatrice, l’unica voce di cui potersi fidare è quella dei detenuti con cui si è instaurato un rapporto di solidarietà e offrire la resilienza come unica forma di sfida al sistema, anche attraverso l’accettazione del cibo che viene propinato. La sua partecipazione attiva alla messa, perché ignaro del fatto che ai detenuti non è dato pregare ad alta voce durante la funzione, quel ‘E sciogli i tuoi servi dalle catene della loro prigionia’ in cui Cristo sembra incitare alla ribellione, daranno il via alla rivolta carceraria per cui Di Noi finirà nel carcere di massima sicurezza dove, quasi abusato dai compagni di cella, cadrà in un delirio tale da costringere gli operatori a traslarlo nella quiete dell’ala psichiatrica del carcere.
La giustizia ‘trionferà’, alla fine, ma la salute mentale di Giuseppe sarà compromessa per sempre. Commovente la scena in cui si accende la sigaretta come se ancora portasse le manette, sotto lo sguardo preoccupato e ansioso di sua moglie Ingrid. E nell’incubo ad occhi aperti che vivrà alla richiesta di controllo dei passaporti, lui, angelo bianco e innocente, cadrà sotto le pallottole di mitra dei poliziotti mentre fugge dall’ombra della prigionia.
🔴 Il film è disponibile su YouTube.
Le condizioni di detenzione in Italia nel 2019
Dal 1998 l’associazione Antigone effettua visite di monitoraggio negli istituti penali italiani. Nella pagina dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione si possono scaricare i rapporti che i volontari di Antigone redigono dopo ogni visita descrivendo le condizioni strutturali, il clima detentivo, il rispetto della legislazione penitenziaria e altre caratteristiche salienti della struttura visitata.
Erano 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019. Quasi 10.000 in più dei posti disponibili, per un tasso ufficiale di sovraffollamento del 120%. Un fenomeno che dura da diversi anni e che nel 2013 ha portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni disumane dei detenuti per sovraffollamento.
Eppure nel nostro ordinamento la detenzione non dovrebbe avere carattere punitivo, al contrario dovrebbe porsi come obiettivo la rieducazione del condannato.
‘Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni’.
(Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo)