Far East Film Festival 22 (parte 2)

Continua e si conclude la classifica dei film a cui ho potuto assistere all’interno del Far East Film Festival 22!
Cliccate qui per la prima parte di questo viaggio in dodici film.

5.  Chasing dream di Johnnie To, Hong Kong/China 
E veniamo all’imprescindibile contributo di Honk Kong. Il film di Johnnie To è certamente stato uno dei più divertenti della rassegna. Un vero e proprio pandemonio, mi verrebbe da dire: due traiettorie di riscatto sociale simmetriche, nella musica (dalle parti di un iperrealista talent musicale) e nello sport (sui ring violentissimi dell’MMA, Mixed Martial Arts), in balia di un sistema mediatico affamato di pathos e narrazioni da consumare. E la fame dello star-system è bilanciata dalla fame dei protagonisti: quella fisica che attiene alla povertà e alla sfera dei bisogni più essenziali del corpo e della mente; quella affettiva, nell’urgenza di stabilire connessioni significative che possano arginare la natura effimera del contatto usa e getta.
Scene di combattimento, inserti musical, è cinema sopra le righe che non rinuncia a una prospettiva morale e politica e sceglie la chiave della distorsione parodistica per affilare la propria critica. Qualche cedimento si avverte quando la scrittura rallenta, alla ricerca di un affondo più intimo ed emotivo, meccanismi narrativi prevedibili, necessari senza dubbio, che poco aggiungono e poco tolgono al film.
Voto: 7-

4. An insignificant affair di Yuanyuan Ning, China
Ancora Cina, con un film delizioso, piccolo, che riesce meglio però di Chengfeng Town a restituire un racconto della provincia cinese distante dalle grandi città e, per certi versi, dalla contemporaneità in cui tutto tende a somigliarsi.
He Xiaoshi, adolescente allampanato e con la testa fra le nuvole, si intrattiene a scuola con la compagna di classe Ling Xiaoyu per migliorare i propri voti. La valutazione scolastica è una spada di Damocle sugli studenti cinesi assai più che alle nostre longitudini, arriva a determinare le aspettative di vita nel bene o nel male, una pressione che ritroveremo in Better days, il film vincitore della rassegna. In questa frequentazione tra i banchi di scuola i due maturano un legame, che resta però totalmente implicito fino a quando, lungo un viale, Xiaoshi non prende la mano di Xiaoyu per leggergliela atteggiandosi a chiromante. Colti in flagrante dalla Preside, per i due comincia un percorso kafkiano di ammenda: in particolare Xiaoshi dovrà scrivere delle scuse da leggere davanti a tutta la scuola, mentre il nome di Xiaoyu sarà tenuto in riserbo in quanto donna.
La messa in scena di questo drama, così lontano dalla sensibilità occidentale, introduce con grazia la difficile coniugazione di una tensione alla competizione totalizzante tipicamente liberista e una dimensione collettiva che soffoca il desiderio individuale: non si possono avere relazioni, sarebbe una distrazione dall’impegno con cui la comunità sostiene la formazione delle ragazze e dei ragazzi alla spietata corsa del Capitale.
Il film procede con buon ritmo, restituisce le oscillazioni emotive dei protagonisti, e l’ “insignificante relazione” diventa una importante tappa di crescita, senza che questa crescita implichi una risoluzione del conflitto tra controllo sociale e individuo. L’innamoramento adolescenziale può essere insignificante per un Paese che primeggia sulla scena del mercato globale, tuttavia due mani che si sfiorano possono costituire pietra di scandalo ed evidenziare le contraddizioni negli scricchiolanti equilibri di una cultura così complessa, soprattutto laddove si è ancora lontani dai luoghi – e dal tempo – del sacrificio per il profitto.
Voto: 7

3. Edward di Thop Nazareno, The Philippines ‘
Al terzo posto ho inserito questo film dalle Filippine, un film che mi è davvero entrato nel cuore. L’azione si svolge in un cupo ospedale, tracotante di umanità: il personale medico si muove a fatica in reparti affollati da malati e famigliari ed Edward, ancora minorenne, scommette con un amico sul destino dei pazienti che giungono in Emergenza. Nonostante l’incipit d’impatto, si comprende subito che la natura scanzonata del protagonista non è altro che un esorcismo della morte: Edward, infatti, vive nell’ospedale al seguito di suo padre ricoverato per un male che tarda a essere compreso, e dorme sotto il letto di degenza, appoggiato a un cartone. Sotto tutti i letti c’è un familiare che deve integrare i compiti di cura, sopperire alle evidenti difficoltà in cui versa l’ospedale. In questo marasma, Edward conosce una ragazza ferita, scommette sulla sua sopravvivenza e si occupa di lei.
Il racconto svelerà progressivamente il rapporto complicato del protagonista col padre e con il fratellastro maggiore; in parallelo, ci mostrerà il suo percorso di maturazione affettiva tra le corsie. Il primo motivo di attenzione per questo film risiede nella fusione estrema tra l’ospedale e la società che lo popola, lo riempie, lo colora di carne, sangue, sudore.
La fotografia sporca, la sceneggiatura nei dialoghi pungenti e leggeri, la regia che segue con discrezione i personaggi e dosa primi piani e movimenti difficoltosi negli spazi angusti, riescono a tradurre in ogni sequenza una prorompente umanità e gli attori ne sono gli inneschi perfetti. La traiettoria del racconto attraversa gli stilemi della commedia per scansare la retorica, ma sul finale infligge diversi colpi allo spettatore.
L’ultima inquadratura sul pianto di Edward (un meraviglioso Louise Abuel), immerso nel mare di corpi addormentati nella sala d’attesa, è un vero pugno allo stomaco: nessuna gratuità comunque, ma un’opera che consegue all’autentica mozione di raccontare i margini sottili che separano la vita, la sopravvivenza e la morte.
Voto: 7,5

2. Vertigo di Jeon Gye-soo, South Korea
E siamo ormai alla seconda posizione della mia personale classifica. Ero tentato di optare per un ex aequo, ma per una piccola sfumatura ho deciso così.
Jeon Gye-soo affida il suo film di critica al maschilismo nella società sudcoreana alla strepitosa interpretazione di Chun Woo-hee: poche volte ho visto un’attrice riuscire a reggere meravigliosamente una sceneggiatura costruita, e costruita bene, tutta intorno al suo personaggio, optando per una interpretazione in levare. Il malessere del suo personaggio femminile, Seo-young, vittima di violenza prima in casa e poi sul lavoro, è rappresentato attraverso una impressionante ricerca sul gesto e sull’espressione: dalla camminata ai sorrisi, il lavoro di Chun Woo-hee è affascinante, magnetico, sollecita empatia ma non lascia che l’emozione catturi e monopolizzi la scena; perché non basta sentire, serve assistere, essere presenti a se stessi e capire la sua solitudine.
Il film è preciso nel rendere conto delle conseguenze più dolorose del precariato, i dialoghi con la madre e con le colleghe vanno oltre le pareti del grattacielo in cui si colloca gran parte dell’azione. E il grattacielo in sé diventa uno spazio scenico dal potenziale sorprendente: la speranza per Seo-young è andar oltre le pareti a  vetro degli uffici, ma fuori c’è il vuoto. Questa scelta scenografica, accompagnata da un lavoro pregiatissimo alla fotografia, si dispiega nella resa simbolica e diegetica del contesto, e propone il secondo sviluppo della sceneggiatura: Seo-young è osservata da Kwan-woo, un lavavetri sospeso a centinaia di metri di altezza, che è anche il mimo Charlot seduto per aria, su una mensola nella galleria del sottostante centro commerciale.
Il percorso di Kwan-woo è meno approfondito, una profonda ellissi introduce un’altra biografia femminile, quella di sua sorella, performer pornografica sulla rete e scomparsa in circostanze violente. In questa sfumatura del ruolo maschile, responsabile di una mancata salvezza e, quindi, redento dalla salvezza di Seo-young, c’è la ragione per cui Vertigo non esprime fino in fondo il suo straordinario potenziale. Tuttavia, il compimento di questa salvezza eterodiretta, piuttosto classica, e che ricompone per certi versi uno probabile squilibrio, ci regala una sequenza indimenticabile a conclusione del film: un bacio tra la vita e la morte, tra la terra e il cielo, immerso nel cromatismo sparato di un tramonto quasi kitsch, che sovverte qualsiasi plastificazione del gesto, e ne sublima invece la plasticità; una rievocazione potente di ciò che il bacio è nella storia del cinema, dell’arte, di tutti noi.
Splendida colonna sonora di Kim Dong-ki.
Voto: 8

1. Better days di Derek Kwok-cheung Tsang, China
E dulcis in fundo, al primo posto confermo il Gelso d’oro, ossia il film premiato dal Far East Film Festival. Il film cinese vince perché indubbiamente ha saputo affrontare gli stessi temi di altre pellicole presentate, bullismo e discriminazione di genere, con una eccellente cura formale, che si realizza nella scrittura, armonizzata, equilibrata, e nell’intensità della messa in scena.
Come in Vertigo, anche qui ha un ruolo determinante lo spessore attoriale: in particolare è maiuscola la prova di Zhou Dongyu nei panni di Chen Nian, una ragazza determinata ad accedere all’università con un buon esame conclusivo del percorso scolastico (spartiacque drammatico per gli adolescenti cinesi, come visto in An insignificant affair): è la speranza di affrancarsi da un contesto di povertà affettiva – vive sola con la mamma e senza amici – ed economica – le differenze di classe negli ambienti domestici ricordano quelle dell’acclamato Parasite (Bong Joon-ho, 2019).
Il bullismo nella scuola di Chen Nian è pratica consueta, colpisce fino all’esito tragico nell’avvio del film: una compagna di classe, tormentata da altre ragazze nell’indifferenza generale, si suicida. Chen Nian eredita le attenzioni del branco, bersaglio perfetto perché isolata e concentrata esclusivamente sullo studio. Per caso, incontra Bei, un giovane senzatetto interpretato dall’ottimo Jackson Lee, e a lui si affida per ottenere protezione.
Il rapporto tra Chen e Bei non può essere catalogato nel romance tout court, la solidarietà tra i due è un patto per la verità, un’autentica alleanza fondativa, nell’ipotesi di poter costruire un futuro per lei, una ragione di vita per lui. Paradossalmente, ma non troppo, questa autenticità si traduce in una menzogna e in un sacrificio estremo, necessari per resistere, per sovvertire la sconfitta profetizzata per entrambi nel confronto/conflitto con la società dell’orientamento collettivo a un feroce individualismo.
Il film cattura, l’interazione tra Chen e Bei è emozionante. Interessante anche la scrittura dei personaggi di contorno, per esempio nella dialettica tra i giovani protagonisti e le istituzioni: in particolare, un giovane poliziotto influisce in modo determinante sulla vicenda. La sceneggiatura forse in questo tradisce un’inclinazione al didascalismo, ma non è assestata su considerazioni banali: ci sono adulti che, pur riconoscendo la dimensione estrema dei crimini compiuti, ribadiscono la responsabilità della comunità nei confronti delle ragazze e dei ragazzi, ammalati da un contesto miserevole ed escludente.
E questa descrizione dolorosa del contesto spiega il perché Better days sia stato bloccato dalla censura del governo cinese: la storia di Chen e Bei è ispirata a un fatto di cronaca che ha fatto scalpore in Cina. La durezza del trattamento e la precisione nella regia e nel montaggio, la cura della fotografia cupissima anche nel bianco gelido delle inquadrature a giorno, enfatizzano l’azione senza concessioni al voyeurismo ed evitando le esasperazioni meccanicistiche viste in Victim(s): così ben diretto a coinvolgere il pubblico, senza rinunciare a una critica netta e asciutta, deve aver irritato e intimorito le autorità. Ritirato prima dalla Berlinale e vietato alle sale nella prima metà del 2019, il film ha ottenuto il placet per la distribuzione a seguito dell’inserimento di informazioni nei titoli di testa e di coda: un resoconto di quanto di buono e “illuminato” il governo cinese sta realizzando a contrasto del bullismo e della violenza tra i giovani e nelle scuole.
Voto: 8+

Si conclude così questa mia carrellata nella ventiduesima edizione del Far East Film Festival. Purtroppo non sono riuscito a vedere almeno altri quattro film che mi incuriosivano: I weirdo di Ming-yi Liao (Taiwan, al terzo posto del concorso), Beasts clawing at straws di Kim Young-hoon (South Corea), Romance doll di Yuki Tanada (Giappone), Cheerful wind del maestro Hou Hsiao-Hsien (Taiwan).
All’organizzazione della rassegna un sincero plauso e la gratitudine per avermi consentito questa meravigliosa esperienza, alla scoperta di un cinema sempre immaginifico e sorprendente.
Speriamo che la prossima edizione possa tenersi libera da condizionamenti nella città di Udine, perché il cinema ha bisogno di eventi come questo, quanto la società di riunirsi, rinsaldarsi intorno alla bellezza, al racconto, alla scoperta.
Arrivederci Far East Film Festival!

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