di Bruno Ciccaglione

Una donna non più giovane si agita di notte in un letto di ospedale, forse in preda a dolori, forse a degli incubi. In piena crisi, ormai prossimo alla morte, per l’ospedale si aggira un altro paziente, le si avvicina e la abbraccia con un gesto di commovente umanità, sussurrandole: “Per me sei la cosa più bella del mondo”. L’abbraccio immediatamente riporta la serenità nel corpo agitato della donna, che si sveglia e si trova davanti quest’uomo affascinante, che seducente aggiunge: “E ti amo”. La sorpresa ed il sorriso si fondono in un bacio appassionato, gli occhi di lei si richiudono, stavolta immersa nel piacere. È questa la forza e la condanna dell’artista, autore e protagonista di All that Jazz, in una scena chiave del film: sa farci emozionare con la sua creazione artistica; sa amare l’umanità e sa alleviarne la fatica del vivere, ma solo attraverso la sua opera, che però è un’opera di finzione. Solo quando si relaziona con una sconosciuta che, idealizzata, rappresenta la donna, la vita, forse la morte – unica sua vera passione – è capace di questi slanci e di questa generosità. Ben altro riserva alle persone reali che lo circondano, ben altro riserva a se stesso fuori dalla scena.

È l’eterno dilemma del rapporto tra arte e vita, tra l’autore e la sua opera, uno dei temi centrali di All that Jazz di Bob Fosse, che del resto è completamente costruito sul corto circuito tra queste due dimensioni. Bob Fosse – il grande ballerino, coreografo, attore, regista di musical e di film – mette in scena se stesso e si racconta senza veli né ipocrisie, con molta indulgenza verso se stesso, ma anche con coraggio e sincerità. Non a caso, a proposito di questo film si è fatto esplicito riferimento a 8 ½ di Fellini, che analogamente divise la critica (le accuse di egocentrismo e di narcisismo da una parte, la celebrazione della genialità artistica dall’altra, proprio nel momento della crisi creativa). Ma mentre Mastroianni/Fellini in 8 ½ letteralmente impiccano il logorroico critico cinematografico, qui è Roy Scheider/Fosse a precipitare nell’ennesima e irreversibile crisi cardiaca mentre ascolta alla televisione la stroncatura del suo ultimo film. Sulla sincerità del racconto poi, basti dire che Fosse morì pochi anni dopo la realizzazione di questo film, in modo simile a quanto avviene nella finzione di All that Jazz.

“Sesso e decesso”, diceva Woody Allen, sono “due cose veramente fondamentali della vita” (Il dormiglione, 1973). E queste sembrano le due principali ossessioni di Fosse e del suo personaggio Joe Gideon, magistralmente interpretato da Roy Scheider, in quella che molti ritengono la sua più grande interpretazione. Fosse in una intervista racconta che l’idea di partenza, che poi darà origine al film, gli venne in ospedale, dopo il suo primo infarto, posto concretamente di fronte alla prospettiva della propria morte: “mi trovai a interessarmi molto alla morte ed al modo in cui veniva trattata la cosa in ospedale, al significato della vita e della morte”.
Iniziò a lavorare dunque ad una prima sceneggiatura, la storia di una donna il cui marito è malato di cuore, che però fu abbandonata perché troppo deprimente, anche se a detta di Fosse molto bella. “Mi dissi che se dovevo dedicarmi ad un film per uno o due anni, non volevo farlo con questo tipo di materiale. Era troppo duro. Volevo affrontare il tema (della morte, ndr), ma volevo farlo usando gli strumenti che io conosco meglio: le canzoni e la danza”. La scelta si rivelerà giusta e nelle corde dell’autore. Ad essa si aggiunge l’intuizione originale di rappresentare la Morte come una seducente e bellissima donna in abito bianco (Jessica Lange), come una sposa che paziente e comprensiva attende l’unione eterna col suo innamorato.

Il film fu nominato per diversi Oscar, ne vinse alcuni e vinse la Palma d’oro a Cannes come miglior film e non si fatica a comprenderne il motivo. L’ambientazione è simile a quella dei suoi precedenti Cabaret (1973) e Lenny (1974), ma il tono appare decisamente diverso – il tema è serio, ma il film lo tratta con leggerezza – e la forma è quella di un cinema totale, capace di intrecciare in modo sapiente tutti gli elementi che lo compongono: la bellezza dei corpi in movimento esaltata dalla spettacolarità della loro performance, fotografata in modo sublime (Giuseppe Rotunno vincerà l’Oscar per la migliore fotografia), è una danza che si avvale di una colonna sonora straordinaria (altro Oscar, a Ralph Burns, con l’aggiunta di alcune canzoni straordinarie).
Il film è costruito a partire da una rappresentazione quasi documentaristica del mondo di Broadway, fin dalla straordinaria e copiatissima scena iniziale, una lunga audizione collettiva con la progressiva selezione dei prescelti, sulle note travolgenti di On Broadway di George Benson. Ma poi nel corso del film – nel suo montaggio alternato di realtà, sogno, spettacolo, allucinazioni, flashback ecc. – man mano che l’incontro con la “donna in bianco” si avvicina, la dimensione surrealista e immaginifica prende il sopravvento e si accompagna alla genialità delle scenografie e dei costumi (altro Oscar condiviso dai 4 autori).

Non poteva mancare, come in ogni musical che si rispetti, un gran finale, con coreografia spettacolare e con tutti i personaggi in scena. Bob Fosse anticipa qui la fine della propria vita, la mette in scena, ci dà il suo estremo saluto. È il protagonista del film a cantare l’ultimo brano, con un senso di liberazione per una finalmente raggiunta serenità. Ora può baciare la sposa e cantare una vecchia canzone degli Everly Brothers leggermente riadattata per l’occasione (da Bye Bye Love a Bye Bye Life): “Bye bye life! / Bye bye happiness! / Hello loneliness / I think I’m gonna die” (Addio vita! Addio felicità! Salve solitudine! Penso che morirò).

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