di Antonio Sofia
Recentemente Re-movies ha dato spazio ad alcune registe che hanno impreziosito la storia del cinema. Le registe sono molte più di quanto non si creda e una nuova levata di promettenti direttrici ha trovato spazio negli ultimi anni, componendo una costellazione di film imprescindibili. Proseguiamo, dunque, in questa proposta dedicando una recensione doppia all’australiana Kitty Green.
Esordisce nel 2013 con Ukraine is not a brothel, un documentario sul movimento femminista delle Femen, di cui cura produzione, scrittura, regia e montaggio (tornerà a coprire più ruoli anche nei lavori successivi). Dopo aver collaborato a realizzare un cortometraggio premiato al Sundance, realizza Casting Jonbenet e The Assistant.
La sua poetica si sviluppa coerentemente: attenta a indagare la dimensione femminile nella contemporaneità, Kitty Green realizza due opere assai coraggiose.

Casting Jonbenet, del 2017, si pone l’obiettivo di ricostruire la vicenda della piccola Jonbenet Ramsey, trovata uccisa nello scantinato della sua abitazione la notte di Natale del 1996. Siamo in Colorado e Jonbenet perde la vita a sei anni: la sua morte diventa un caso, i suoi genitori hanno chiamato la polizia per denunciarne il rapimento, presentando agli agenti una lettera di riscatto poco verosimile. Tuttavia, il corpo della bambina è in casa, viene rinvenuto dal padre e le sue condizioni rendono chiaro sin da subito che la tragedia deve avere un responsabile: un colpo alla testa, legata ai polsi, muore per strangolamento. L’inchiesta ottiene grande visibilità, perché Jonbenet non è una bambina comune, è una reginetta dei concorsi di bellezza che in America coinvolgono minorenni acconciate da adulte, impegnate in esibizioni ammiccanti, con la partecipazione di madri e padri affamati di successo.

Il documentario non propone la consueta sequenza di interviste e stralci televisivi dell’epoca dei fatti. Kitty Green non è interessata a proporre l’ennesimo spettacolo per voyeur di cui la real-tv è piena. Sceglie un’altra strada, una strada che ne rivela lo spessore di autrice.
Organizza il casting per un film di fiction sulla vicenda e poi usa i provini degli attori e pseudo-attori locali per realizzare un racconto corale potentissimo e doloroso.
Le candidate al ruolo della madre di Jonbenet si susseguono davanti alla camera: intrecciano confidenze, ipotesi sul delitto e impressioni sulla donna che vogliono interpretare. Gli uomini si propongono come padri della bambina, come capi della polizia, o per recitare nelle vesti del pedofilo che durante le indagini si fece avanti con una falsa confessione. Poi ci sono i bambini, impressionanti: i maschi, che vorrebbero essere il fratello maggiore di Jonbenet, 9 anni, ai margini degli affetti familiari e sospettato di essere autore dell’omicidio; le femmine, che aspirano a interpretare la piccola vittima, si prestano a ripercorrerne le gesta sul palco. Non mancano i Babbi Natale, figure assai presenti nella socialità americana, un esercito di biancobarbuti che in occasione delle feste trova lavoro nei centri commerciali, negli eventi pubblici e nelle feste domestiche, come era accaduto a casa Ramsey.

Il mosaico della Green è impietoso. La società (americana, ma non sembra si possa ridurre agli States il fenomeno) si riunisce intorno a un delitto terribile, non esita a immaginare che se ne possa fare un prodotto commerciale, mette a nudo le proprie storie di frustrazione, grottesca ambizione, sofferenza privata. Il desiderio di esser scelti per la parte nel film passa per riflessioni spesso ciniche, per impressioni superficiali che individuano colpevoli e dispensano assoluzioni sulla base del sentito dire, dei video di repertorio, su quanto riportato dalla stampa: scenari complottisti, idee bislacche, sorrisi imbarazzati e imbarazzanti. Si possono riconoscere le facce dietro i post sui social network: tutti hanno un’opinione su tutto. Si investe per un tornaconto di patetica visibilità. Si sfoga una repressa, diffusa aggressività.
Ciò che non è mai messo in discussione, se non per brevi scampoli di consapevolezza, è il contesto barbaro di esposizione in cui una bambina diventa oggetto di manipolazione, modellazione, offerta al pubblico, in gare che giocano morbosamente sulla bellezza innocente, ne fanno carne da macello a disposizione di sguardi licenziosi.

Gli aspiranti attori si confessano senza remore e la “ricerca sul campo” è impreziosita da uno sguardo che va oltre il genere, per la cura estetica della composizione con cui la Green restituisce la materia umana che ha raccolto, offrendo un finale memorabile.
Nel 2019 Kitty Green porta in sala il suo primo film di fiction. Ed è una prova ugualmente coraggiosa. The Assistant è un film in cui succede pochissimo, costruito tutto sulla quotidianità di una giovane assistente all’interno di una casa di produzione.
Non sono mancati film e serie tv di denuncia sulla scia del processo Weinstein e del #metoo: Bombshell (Roach, 2019), The morning show, Atlete A, sono alcune di queste.
The Assistant trova una sua strada, grazie a una regia meticolosa e all’interpretazione della bravissima Julia Garner: niente riscatto, non ancora, per la silenziosa Jane, laureata di grande prospettiva, impiegata per diciotto ore al giorno a tener pulita la scrivania e l’agenda del capo, in attesa che questi la “renda grande”.

La Green ci mostra vessazioni che omologano il maschilismo all’esercizio di potere nella gerarchia lavorativa tout-court e lo fa stando addosso alla sua protagonista, un po’ come farebbero i Dardenne: lo spettatore assiste alle ferite minuziose, ai brevi cenni di reazione, immerso nei colori grigi di un ufficio in cui tutto è polvere o destinato alla polvere.
Jane, nel momento topico del film, decide di denunciare alle Risorse Umane la condotta del capo, che ha raggiunto in albergo una giovanissima ragazza: il boss l’ha reclutata dal servizio ai tavoli di un bar di provincia per fare il suo stesso lavoro. La bellezza e la disponibilità della nuova assistente, a cui viene assegnato nessun compito e un elenco telefonico, feriscono e spaventano Jane: ed è su questa minima ambiguità che il responsabile delle Risorse Umane costruisce la sua controffensiva, accusandola di invidia, gelosia, irriconoscenza. “Ne ho centinaia che vorrebbero il tuo posto… E comunque non preoccuparti, tu non sei il suo tipo”.
I colleghi di stanza, maschi minori che sanno come stare al mondo, le detteranno una lettera di scuse in cui umiliarsi a dovere.

È il racconto di una rassegnazione sfibrante al funzionamento del sistema? Forse, e non è detto sia in male. La fisicità contenuta della Garner – una splendida prova di sottrazione, in cui la si guarda mortificata in un contesto che le nega l’opzione di essere capace, brillante, bella – fa da contraltare all’idea che il mondo sia già stato capovolto. Le radici dello sfruttamento, dell’abuso, del maschilismo, affondano nel sistema produttivo ipercompetitivo e disumanizzante (come più volte notato nel recente Far East Film Festival), si alimentano di vite precarie e vulnerabili, nello spirito del “tutti sono necessari, nessuno è indispensabile”. E le donne si devono poter sostituire, spesso e agilmente.

Kitty Green ha un’idea di cinema originale e una responsabilità militante, coniuga senso critico e ricerca formale. Casting Jonbenet e The Assistant ci dicono che si può inventare cinema e che l’invenzione nasce da un’osservazione attenta e sensibile dei drammi del nostro tempo. Si può e, forse, si deve fare così, perché resti qualcosa, perché l’arte stessa possa evolversi e contribuire all’immaginazione di un cambiamento etico, all’evocazione di un desiderio lucido e rivoluzionario.
>> Casting Jonbenet è disponibile su Netflix
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