Uno sguardo all’Italia e ai suoi cambiamenti dalla spiaggia, sotto l’ombrellone

di Greta Boschetto

Il mare e le vacanze estive sono da sempre un pilastro della vita e della cultura italiana e fin dalle sue origini il nostro cinema è stato uno dei principali narratori degli aspetti tipici dell’italiano “medio”. L’idea di un certo tipo di villeggiatura si è sviluppata e modificata nel corso della storia del nostro paese e il cinema ne è stato lo specchio principale, raccontando le vacanze prima come occasione destinata a pochi privilegiati, poi come momento di spensieratezza di massa durante gli anni del Boom economico per diventare poi teatro di inquietudini borghesi di una società in cambiamento o palcoscenico di gialli e thriller negli anni ’70. Nella sua natura di luogo trascendente rispetto alla vita ordinaria, la spiaggia diventa la postazione privilegiata per analizzare il comportamento di un popolo, in questo caso quello italiano, un osservatorio speciale per scrutare i modelli di vita vacanzieri prima di una stretta cerchia di personaggi abbienti e poi delle masse, che porteranno la vita balneare estiva a diventare simbolo incontrastato sia in positivo che in negativo di una parte della nostra italianità.

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Morte a Venezia, di Luchino Visconti

Vediamo l’Italia di inizio secolo grazie allo sguardo retrospettivo di Luchino Visconti con Morte a Venezia (1971), quando la villeggiatura era di lunghi mesi, elegante, aristocratica, piena di ossessioni decadenti in una Venezia raffinata ma già fragile; grazie a Valerio Zurlini ci immergiamo nel 1943 col il suo intenso Estate Violenta (1959) e sulle spiagge di Riccione ritroviamo il ritratto di un’Italia benestante che cerca di crearsi un piccolo angolo di paradiso, lontana dagli scempi della guerra, con amori contrastati e intensi ma purtroppo con la realtà che inevitabilmente busserà nella vita di tutti.

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Estate violenta, di Valerio Zurlini

Agli inizi degli anni ’50 la ripresa economica avanza e entriamo sempre più in tempo di commedia, anche se una menzione speciale spetta a La spiaggia (1954) di Lattuada, dove la location vacanziera, luogo di riposo e divertimento, viene usata per mettere in mostra il perbenismo e il moralismo ipocrita della medio borghesia di quegli anni, pronta a puntare il dito e a giudicare un’amorevole madre in vacanza la cui unica colpa è quella di essere una prostituta.

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La spiaggia, di Alberto Lattuada

La voglia di leggerezza contagia tutti, soprattutto il cinema e soprattutto in estate: con i primi segnali di ripresa economica la commedia si appropria del tema balneare e a far da apripista ci pensa Luciano Emmer con Domenica d’agosto (1950), un film neorealista quasi documentaristico nel quale si incrociano le storie di una variegata fetta di popolazione romana che abbandona la città per recarsi in massa a Ostia in cerca di refrigerio.

domenica d'agosto
Domenica d’agosto, di Luciano Emmer

Il film di Emmer sarà l’esempio per molte delle successive commedie balneari, gli “spiaggiarelli”, in gran parte dei casi più scanzonati e leggeri rispetto al capostipite. Pinne, fucile ed occhiali, tipi da spiaggia e bellezze in bikini, corteggiatori e corteggiate non sempre con successo, in quegli anni approdano sullo schermo Racconti d’estate (1958) di Gianni Franciolini, Ferragosto in bikini (1960) di Marino Girolami, Diciottenni al sole (1962) di Camillo Mastrocinque e il film quasi a episodi Frenesia dell’estate (1964) di Luigi Zampa.

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Ferragosto in bikini, di Marino Girolami

Una delle pellicole più riuscite del periodo è indubbiamente Leoni al sole (1961) di Vittorio Caprioli, qui anche attore: in apparenza una commedia ridanciana (con una spassosissima Franca Valeri) ma che nasconde una malinconia quasi struggente, con echi felliniani a quei vitelloni riminesi qui visti come dei leoni marini di Positano, pigri e furbi, rappresentanti del bestiario maschile estivo che decide di passare il tempo tra l’ozio e la conquista amorosa, per poi tornare sul finire dell’estate alle proprie speranze frustrate e ai sogni traditi.

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Leoni al sole, di Vittorio Caprioli

Il cinema diventa via via rappresentante anche delle prime crepe del Boom, di quell’iniziale benessere che lascerà sempre più spazio alle inquietudini dei cambiamenti che faranno da apripista al malessere economico e morale dei decenni successivi, con Dino Risi in testa a tutti con Il sorpasso (1962) e L’ombrellone (1965), in queste due pellicole perfetto narratore dell’italianità in crisi.

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Il sorpasso, di Dino Risi

Nella prima tratteggerà il profilo di due uomini soli, il loro atteggiamento speculare durante un viaggio in macchina che sarà più che altro un rito di passaggio di un ragazzo che ha paura di crescere e di un uomo che non è voluto crescere, mentre nella seconda stravolgerà le risate da commedia balneare trasformandole in un inquietante weekend insieme a Enrico Maria Salerno, giunto in Riviera per andare a trovare la moglie (Sandra Milo) in villeggiatura, circondata da personaggi superficiali immersi in riti sociali ipocriti, con il carnaio sulle spiagge e le canzonette a tutto volume sparate da ogni altoparlante, crisi di coppie e discorsi inutili per riempire un vuoto intellettuale imbarazzante e più che mai attuale: ma del vuoto e dell’incomunicabilità in ambientazione marittima sarà maestro per tutti Michelangelo Antonioni ne L’avventura (1960).

Un’attrice importante che a questo periodo deve tantissimo è indubbiamente Catherine Spaak, ninfetta scaltra, innocente e crudele al tempo stesso. Ne La voglia matta (1962) di Luciano Salce l’ormai maturo e annoiato ingegnere Ugo Tognazzi incarna perfettamente l’irrepetibilità della giovinezza, innamorato della sedicenne Spaak. Il conflitto generazionale è lampante tra lui con la sua Spider e il figlio in collegio e la compagnia di lei, in vacanza, dedita solo ai festeggiamenti e alla spensieratezza; lui borioso e grottesco, spesso paternalista ma pronto a subire angherie e umiliazioni pur di sentirsi ancora giovane, lei leggera e capricciosa o, più semplicemente, ancora giovane.

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La voglia matta, di Luciano Salce

Ritroviamo Catherine Spaak in un film di Florestano Vancini, La calda vita (1964), ambientato in Sardegna tra Cagliari e Villasimius, in uno spaccato sui nuovi giovani dell’epoca, sempre più divisi tra interessato materialismo e sentimenti puri, dove innocui giochi di seduzione tra coetanei e il solito quarantenne malato di lolitismo, porteranno a tragiche conseguenze.

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La calda vita, di Florestano Vancini

Intanto gli anni ’70 si fanno sempre più vicini e se da commedia scanzonata già eravamo passati a una forte vena malinconica, tra la fine e l’inizio del nuovo decennio le tinte diventano sempre più drammatiche e fosche nonostante il mare a far da contorno.
Nella pellicola L’estate (1966) di Paolo Spinola la borghesia ormai è allo sfascio morale, la noia e l’inquietudine di una coppia alla deriva su uno Yatch al largo nelle acque sempre della Sardegna diventano un pruriginoso triangolo amoroso tra lui, lei e la figlia di lei, ripresentando in chiave diversa e più drammatica l’attrazione dell’uomo maturo in crisi di mezza età verso il ricordo tangibile della propria giovinezza.

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L’estate, di Paolo Spinola

Arriviamo così alla fine degli anni ’60 e ritroviamo Florestano Vancini con Violenza al sole – un’estate in quattro (1969), un dramma balneare dai toni malinconici e sognanti in location marittime da incanto, arricchito nel cast dal duo svedese- bergmaniano in un film capace di coniugare il sole e le tenebre: due coppie, un’isola, il sesso, l’amore, l’alchimia e le carte che rischiano di mischiarsi in un gioco pericoloso con un finale omicida.

casotto
Ca

Chiudiamo il cerchio nel 1977: è sempre domenica, è sempre agosto, siamo sempre a Ostia, ma non stiamo più parlando delle atmosfere dolceamare del neorealismo di Luciano Emmer da cui siamo praticamente partiti, ma di Casotto di Sergio Citti. Il “Casotto”, lo spogliatoio comune balneare, è l’unico luogo scenico dell’azione ma anche metafora della grande confusione dell’Italia degli anni ‘70. Diversi personaggi si incrociano nella cabina collettiva in un film corale che ci parla da uno spazio delimitato, quasi intimo, nel quale far emergere la propria natura spesso anche animalesca e nel quale tramare le proprie mosse da fare all’esterno, un luogo quindi interiore e non solo inteso come la struttura da spiaggia, che rivela le reali pulsioni e i segreti dell’umanità in questione. Sergio Citti ci regala una sanguigna, tagliente e a tratti feroce analisi antropologica di una società di persone modeste, schiette e ingenue, tratteggia in maniera grottesca, naif e sopra le righe le loro miserie, i loro sogni e bisogni, visti con un occhio disilluso ma candido, giudicante quasi, ma con un po’ di amara tristezza.
La frenesia della giornata di festa verrà interrotta da un improvviso acquazzone che costringerà tutti a un frettoloso ritorno in città.
È finita l’estate.

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