La famiglia, di Ettore Scola (1987)

di Marzia Procopio

Una foto in bianco e nero segna l’inizio di uno dei film più amati di Ettore Scola, La famiglia, scritto dal regista romano con Ruggero Maccari e Furio Scarpelli e uscito nel 1987. Una foto lo chiuderà, in una struttura circolare che racchiude gli ottant’anni della storia della famiglia del titolo.

Il film è diviso in otto parti che durano ciascuna dieci anni, un lungo arco di tempo scandito dalla macchina da presa, che a cadenza regolare inquadra – con lunghe carrellate che divengono elemento linguistico e narrativo – il corridoio della grande casa borghese in cui si svolgono le vicende raccontate. I passaggi al decennio successivo sono spesso segnalati anche dall’avvicendamento degli attori man mano che i personaggi crescono. Per creare continuità narrativa e guidare lo spettatore nell’identificazione, Scola utilizza ancora, nella prima inquadratura del momento di passaggio, l’interprete precedente, che sostituisce solo dopo un controcampo.

Si parte dal 1906, si passa per gli anni del Fascismo e della guerra, del dopoguerra e del boom economico; e poi gli anni ’70 con le loro battaglie di libertà, gli anni ’80 e il loro disimpegno; si chiude con un’altra foto di gruppo scattata nel 1986, in occasione dell’ottantesimo compleanno dello stesso Carlo. Professore di lettere in pensione, il protagonista traccia in prima persona, grazie alla splendida voce off di Gassman, un bilancio della propria esistenza ripercorrendo le tappe salienti della vita di una tranquilla, tradizionale famiglia del quartiere sabaudo Prati a Roma.

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Il battesimo di Carlo, 1906

La storia inizia con il battesimo di Carlo, che porta il nome del nonno e capofamiglia, professore di lettere in pensione. Abitano nell’appartamento con lui e sua moglie un loro figlio maschio, Aristide padre di Carlo, con la sua famiglia, le tre figlie Luisa, Margherita e Millina, litigiose ma inseparabili, e la domestica con la nipotina Adelina. L’altro figlio, Nicola, vive con la sua famiglia in un’altra casa.

Scoppia la prima guerra mondiale; il nonno, gravemente malato, muore; emergono le differenze fra Carlo, pacato e riflessivo, e suo fratello Giulio, impulsivo e irrequieto. A vent’anni, Carlo inizia a impartire lezioni private a una liceale, Beatrice, palesemente innamorata di lui, che però le preferisce la sorella Adriana, studentessa al conservatorio; la giovane lo corrisponde, ma dopo qualche tempo, volendo partire per un corso di perfezionamento, lo lascia. Nel 1936 Carlo, ormai professore di liceo, ha sposato Beatrice, dalla quale ha avuto i due figli Paolino e Maddalena. Giulio, simpatizzante del regime fascista, parte per la Guerra d’Etiopia. Arriva in visita Adriana con il fidanzato francese, Jean-Luc, e a cena Carlo, accecato dalla gelosia, scatena un’inutile polemica; a salvare la situazione, l’intervento conciliante di Beatrice.

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Adriana e il fidanzato francese

Nell’estate del 1955 la famiglia si prepara per le tradizionali vacanze a Santa Marinella; Giulio fa leggere al fratello un romanzo autobiografico che intenderebbe pubblicare, ma il professore non dà molto peso alla cosa. Adriana, di passaggio a Roma, passa una notte nella casa, incontrando per caso Carlo, il quale le rivela di amarla ancora. La donna, pur amandolo, lo rifiuta, accusandolo di non aver mai saputo realizzare i suoi sogni e sapendo che le toccherebbe solo il ruolo di amante. L’inverno successivo, in una notte caratterizzata dalla copiosa e celebre “nevicata del ‘56”, l’uomo dichiara a una assai sorpresa Beatrice l’affetto, la riconoscenza e il rispetto che ha per lei. Qualche anno dopo, Beatrice muore; Carlo vive in una solitudine ordinata, velata da una malinconia leggera, ironica. In casa con lui abita ormai soltanto il nipote Carletto, spesso assente, e ogni tanto si fa vedere Adriana, per assicurarsi che lui stia bene. Nell’ultima parte, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Carlo, arrivano nella casa a uno a uno i protagonisti di questa saga – oltre ad Adriana, naturalmente, ci sono Giulio, Adelina, la loro figlia adottiva, Marina, che è diventata madre, Paolino e Maddalena con le loro famiglie; poi ancora nipoti e pronipoti, persone che l’uomo non sa più come sono con lui imparentate. Tra gli ultimi dolci battibecchi di Carlo con Adriana e con Giulio, la Famiglia si congeda con un’ultima foto da noi, che non siamo mai usciti dalle mura della casa, teatro e spettatrice delle vicende dei suoi abitanti.

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Il compleanno di Carlo, 1986

Qual è la ragione per cui questo film corale, non il più bello di Scola, resta nella memoria collettiva e dei singoli? Forse la scelta di celebrare legami che tengono nonostante tutto: Carlo, dopo cinquant’anni di affettuosa, talvolta dispettosa rivalità, dice finalmente al fratello Giulio, rispetto a lui irrealizzato, di aver letto il suo libro e di averlo trovato bellissimo; nonostante ami l’inquieta Adriana, resta legato alla moglie Beatrice, senza la quale – dirà dopo la morte di lei – “non ci sarebbe stata questa famiglia”; dal canto suo Adriana, una che ‘non ama nessuno’, che aveva scelto di non cedere per non ferire sua sorella e non mancare di rispetto a se stessa, gli è accanto fino alla fine, litigando e battibeccando con lui perché è così che hanno imparato ad amarsi. C’è anche l’amore genitoriale con le sue difficoltà; indimenticabile la scena in cui Beatrice – una trasognata Stefania Sandrelli, qui in una delle sue prove migliori – condivide col marito una riflessione intima e vera su una condizione che ogni genitore si trova ad aver sperimentato: “ai figli che danno pochi pensieri si dedicano pochi pensieri”.

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Scola incarica un monumentale Vittorio Gassman di scandire con ordine i decenni di questo gruppo di famiglia in interno, e lo fa raccontando anche le piccole crudeltà o i dispetti che vi si consumano: il prozio Nicola che fa un gioco crudele con Paolino fingendo di non vederlo finché il bambino non prorompe in un pianto disperato (e Paolino non diventa mai Paolo, perché nelle famiglie il cambiamento è sempre difficile e i piccoli restano piccoli); Carlo che di nascosto fa cadere un piatto per terra per far litigare le zie. Ogni dissidio si ricompone, in via Scipione l’Emiliano n.45: non ci sono scenate, non ci sono tragedie. Scola guarda con affetto i suoi adulti, che sono talvolta irrisolti, incoerenti, iracondi, ma pronti a rinunciare, a sacrificarsi, cioè fare sacro ciò per cui vale la pena scegliere il bene. Nella Famiglia – di cui non conosciamo il cognome perché è un ideale – ci sono donne pazienti come Adelina con Giulio, o disposte a sacrificarsi per amore, come Beatrice, che si accorge che fra la sorella e il marito c’è qualcosa ma tace, per non incrinare l’equilibrio dei rapporti; anni prima ha lasciato gli studi e messo da parte l’amore per la letteratura, le ambizioni di diventare anche lei insegnante per costruire la famiglia, e chissà, forse anche per non togliere spazio a lui; ci sono anche donne che inseguono i loro desideri, come Adriana, la musicista di talento che per realizzare le sue ambizioni e rispettare se stessa – Carlo è molto geloso, troppo per lei – sacrifica l’amore romantico e afferma la propria individualità; talvolta i genitori manipolano – come Carlo, che per dissuadere la figlia Maddalena dal progetto di sposarsi con un uomo inadatto a lei la blandisce – “se te ne vai con chi parlo io?” – e feriscono: Paolino ascolta quella conversazione, che lo fa sentire escluso senza appello da quel sodalizio amoroso. Eppure c’è sempre serenità in queste anime, la cui vita ci appare rassicurante perché fra quelle mura non ci sono conflitti irrisolvibili, e i giorni si srotolano come musica dolce: il corridoio sempre uguale, bambini sempre diversi che corrono in triciclo, giocano ai duellanti, poi diventano ragazzi e si affaccendano per preparare i bagagli per i loro viaggi.

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Il corridoio della casa

Tutto arriva attutito, in Via Scipione l’Emiliano n.45, la Storia e le storie, i piccoli eventi quotidiani narrati con uno stile minimale e venato di nostalgia per il tempo che passa: le scene sono girate quasi tutte in interni, si vede fuori solo quando Adriana esce; con questa ambientazione teatrale, Scola sembra voler connotare la famiglia come guscio che protegge e sostiene. Non c’è spazio per gli isterismi delle famiglie borghesi del cinema italiano dei nostri tempi, nessun livore insanabile serpeggia. Scola sceglie di non dare né chiavi di lettura né giudizi: conosce la complessità della vita interiore dei singoli membri di un soggetto sociale, la famiglia appunto, che in Italia ha sempre avuto una centralità forte anche di fronte a trasformazioni sociali, economiche e culturali importanti. I personaggi, così, accolgono senza drammi né resistenze i numerosi cambiamenti che nel lungo arco temporale rappresentato attraversano le loro vite, cui si fa riferimento ma sempre in modo indiretto. In questo modo, la famiglia di Carlo si adatta e si lascia cambiare dalla Storia, ma resta sempre fedele a se stessa, come impermeabile a quanto accade al di fuori: il ritratto ‘da dentro’ di un paese ancora legato alle proprie tradizioni e ai propri riti, dipinto dallo sguardo rigoroso ma affettuoso del regista.

A Scola interessa l’affresco corale (ha già girato La terrazza e Ballando ballando), e per ottenerlo si avvale qui di un cast che raccoglie attori di ogni età e che lui dirige al meglio mettendosi al servizio della pluripremiata sceneggiatura, scritta insieme a Ruggero Maccari e Furio Scarpelli: Andrea Occhipinti e Vittorio Gassman nella parte di Carlo, Cecilia Dazzi e Stefania Sandrelli-Beatrice, Jo Champa e Fanny Ardant-Adriana; e poi Sergio Castellitto, Giuseppe Cederna, Athina Cenci, Massimo e Carlo Dapporto, Memè Perlini, Ottavia Piccolo, Monica Scattini, Ricky Tognazzi, Massimo Venturiello, Philippe Noiret. Il regista romano li dirige con grande senso della misura, riuscendo a far emergere un Gassman che trattiene le passioni sotterranee di Carlo, le sue insoddisfazioni, e governa ‘il Mattatore’ interno attingendo a tutti i registri emotivi: commovente, nella notte della nevicata del ’56, il bacio di Carlo sui capelli della paziente, silenziosa Beatrice, a cui può toccare quella tenerezza che non tocca invece a Elide, la moglie incolta e infelice di Gianni in una scena analoga di C’eravamo tanto amati. Come già in questo film, del resto, e in Una giornata particolare, il regista romano dipinge un ritratto senza sconti, intenso e sincero del ‘secolo breve’ raccontandolo attraverso le vicende individuali di singoli.

La famiglia vinse molti premi anche internazionali, perché celebra la vita delle generazioni, che si avvicendano in un clima di comprensione reciproca che conferisce grande dignità umana a tutti i personaggi e alle loro storie. Del resto, “Ogni famiglia – scrive Alan Bennett – ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie”.

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