La collina del disonore, di Sidney Lumet (1965)

Di A.C.

Seconda Guerra Mondiale: durante l’occupazione delle truppe britanniche sul suolo africano, un gruppo di soldati inglesi viene condotto in un campo di prigionia albionico per coloro che hanno ricevuto condanna disciplinare da parte di un tribunale militare, al fine di ottenere una “rieducazione” consona al loro status. Ma tra l’assenteismo sciatto del comandante, la gestione tirannica del sergente maggiore e i metodi vili e brutali del suo subalterno, il campo di rieducazione si rivela un luogo di ingiustizie e abusi, insabbiati dall’omertà dei responsabili e in cui a farne le spese è principalmente l’ex-sergente Joe Roberts (Sean Connery), detenuto per insubordinazione e per questo preso di mira dagli aguzzini del posto.

Questa opera è meno ricordata di altre, tra quelle di Lumet regista e Connery interprete (la prima delle loro quattro collaborazioni), ma non è di certo minore nella filmografia prestigiosa del cineasta statunitense che mette in scena un angosciante dramma bellico-carcerario, che si distingue da illustri predecessori del genere firmati Renoir, Wilder, Bresson e Lean, perché il nemico carnefice è la stessa madrepatria, qui rappresentata dall’Inghilterra di Sua Maestà.
Nell’operazione di Lumet il nemico del fronte non si vede mai, la follia della guerra non viene ricercata nell’odio tra popoli ma nell’insensata forma mentis dei suoi eserciti, che spreme brutalmente chiunque fino alla completa disumanizzazione o all’annientamento psicofisico della persona.

Una denuncia coraggiosa sull’assurdità del sistema educativo militare, che gioca abilmente sul raffronto psicologico tra i personaggi (espediente già adottato con successo dal regista ne “La parola ai giurati”).
Lumet demolisce il sistema militare “ridicolizzandone” soprattutto le gerarchie, da un comandante assente impegnato principalmente in compagnie femminili, un sergente maggiore ciecamente fanatico della disciplina da non accorgersi dell’eccesso di potere del sadico subalterno, a un ufficiale medico succube dei gestori del campo al punto da risultare ininfluente.

Si parte da una panoramica dall’alto della collina punitiva dei soldati, per poi immergersi sempre più a fondo in una escalation di orrori, tra piani ravvicinati sugli interpreti, sulle loro espressioni e le loro azioni per coglierne la progressiva sofferenza. Lumet non fa sconti: mostra in tutta la sua ferocia la devastazione fisica e psicologica delle vittime contrapposta alla ferocia cieca degli oppressori. Non vi è alcun artificio, tutto è diretto, crudo, reale.
Una narrazione piuttosto asciutta, che accusa alcuni momenti di ridondanza nella parte centrale per poi, però, sfociare in un finale di inevitabile esplosione, in cui straripa sempre di più la tensione fino a culminare in un epilogo amarissimo.
Sceneggiatura solida e cast in grande forma capitanato da Sean Connery in uno dei suoi ruoli più convincenti, tra i primissimi lontani dal volto di James Bond.

“Disciplina! L’esercito è disciplina!”
“Sono nell’esercito perché non ho trovato un buco da civile. Però ero un bravo soldato! Marionetta come te, sì! Qualunque ordine mi davano io l’afferravo come un cane afferra un osso!”

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