Selfie, di Agostino Ferrente (2019)

di Marzia Procopio

Nel 2014 Davide Bifolco aveva 16 anni; come altri adolescenti cresciuti in quartieri difficili, non andava più a scuola e coltivava il sogno di diventare ricco facendo il calciatore. Un giorno, mentre girava su un motorino con due amici, fu scambiato per un latitante da un carabiniere, che lo uccise con un colpo di pistola partito accidentalmente – così il militare disse durante la deposizione – a causa di un inciampo. La vicenda colpì così tanto Agostino Ferrente che il regista decise, due anni dopo, di partire da lì per girare il suo nuovo film.

Ferrente, che ha lungamente lavorato in coppia con Giovanni Piperno e ha anche fondato la celebre Orchestra di Piazza Vittorio, è un regista che crede nella possibilità del cinema di intervenire sul reale e sente forte la spinta a indagare contesti sociali marginali ma restituendo dignità e bellezza ai personaggi che delle criticità di quei margini sono vittime. Da questa intenzione era già nato, nel 1999, Intervista a mia madre, in cui Ferrente e Piperno avevano chiesto ai quattro giovanissimi protagonisti di riprendere con una videocamera le interazioni quotidiane con le loro rispettive madri e famiglie. Era evidente già allora la partecipazione emotiva di uno sguardo, quello dei due cineasti, desideroso di mettere in luce la bellezza dei giovani protagonisti al di là delle oggettive difficoltà del contesto sociale, una bellezza in cui si rivela il germe di una possibile resistenza al disincanto e al degrado. Dalla stessa posizione etica, e dall’assassinio di Davide Bifolco, nasce nel 2019 Selfie.

Al Rione Traiano vivono due giovani che Davide lo conoscevano bene: Alessandro e Pietro, 16 anni, amici fraterni. Alessandro cresce senza il padre, che dopo la separazione dalla madre si è trasferito altrove; come Davide, non va più a scuola, ma diversamente da lui ha un lavoro: garzone in un bar, spesso consegna caffè a domicilio guidando il motorino con una mano, con l’altra tenendo spavaldamente in equilibrio il vassoio. Non può andare in vacanza perché guadagna poco, ma è cosciente di essere fortunato, perché è un lavoro onesto in un quartiere dove è fin troppo facile, per i giovani disoccupati, avvicinarsi allo spaccio. Gli fa compagnia il suo migliore amico, Pietro, che sogna di diventare parrucchiere ma che è disoccupato, perché “nessuno lo vuole”. Il padre ha un ingaggio stagionale come pizzaiolo fuori Napoli e torna una volta alla settimana, la madre è in vacanza al mare con i fratelli più piccoli; Pietro resta a casa per tenere compagnia al suo migliore amico e provare a mettersi a dieta: da quando un cugino ha perso la vita in un incidente stradale, il ragazzo ha perso il controllo sul proprio corpo. Ferrente chiede ai due di filmarsi con l’iPhone e raccontare in presa diretta il proprio quotidiano, la loro amicizia, il quartiere.

Presentato in anteprima mondiale al Festival di Berlino nel 2019, finalista agli EFA (gli Oscar Europei), designato “Film della Critica” dal Sindacato Critici Cinematografici, vincitore di oltre 15 riconoscimenti in festival nazionali e internazionali, acclamato dalla stampa di tutto il mondo – fra gli altri Variety e i Cahiers du Cinéma – premiato con il David 2020 per il miglior documentario, Selfie ha un impianto ‘semi-partecipato’: i ragazzi filmano l’auto-racconto in video-selfie, ma il regista è sempre con loro a chiedere, sollecitare, intervenire; e lo fa, ad esempio, alternando al girato le immagini delle telecamere di sicurezza, che fotografano la realtà immutabile delle strade del rione come grandi fratelli indifferenti; oppure girando in prima persona la scena del sogno di Alessandro: in motorino, in una dimensione bluastra e vagamente psichedelica in cui il tempo procede a ritroso; oppure dà agli attori indicazioni puntuali per ottenere l’effetto desiderato, come nella scena – indicata dallo stesso regista come esemplificativa della sua “didascalizzazione delle metafore” – del rientro dei due ragazzi dal mare: Pietro, che è di corporatura piuttosto pesante, sembra non farcela durante la salita, metafora delle fatiche che toccano a certe vite a cui non viene mai regalato niente, e Alessandro, per consolarlo, lo fa sorridere e gli terge il sudore col proprio asciugamano.

Sullo sfondo, costantemente, lo spettro di Davide, ferita che non guarisce per tutto il rione, che Ferrente fa raccontare senza nasconderne ipocritamente né evidenziarne microcriminalità, degrado, povertà materiale e sociale.

Il film quindi non è un racconto libero, un self-filmed doc. Alla base di tale equivoco interpretativo – su cui peraltro la campagna pubblicitaria all’uscita del film giocò – c’è senz’altro la nostra concezione del selfie come inquadratura soggettiva atta a soddisfare la pulsione auto-rappresentativa, ma nel film il realismo senza filtri è solo apparente. Il regista si propone indagare, attraverso i video-selfie, due piani: quello affettivo, che emerge dai primi piani dei due ragazzi, e quello oggettivo dell’ambiente sociale, del contesto in cui i due ragazzi si muovono. Nel film il volto dei ragazzi occupa un terzo, i restanti due terzi sono sempre dedicati, su richiesta di Ferrente, al contesto. I primi piani costituiscono una sorta di schermo delle emozioni dei ragazzi, spesso accompagnate dal silenzio o da sguardi in macchina che chiamano in causa l’emotività dello spettatore, ma i volti di Alessandro e Pietro si collocano al margine dell’inquadratura, per suggerire l’apertura di un dialogo con il contesto sociale, con la realtà del quotidiano. La scelta di inserire nel montaggio le riprese delle telecamere a circuito chiuso rimarca l’importanza dello spazio quotidiano, che costituisce il collante sottinteso e la base stessa di questo racconto; come ulteriore elemento di realtà si aggiunge l’episodio di cronaca, la tragica morte di Davide.

Memoria di una dolorosa tragedia, diario di un legame affettivo, dichiarazione d’amore di un regista ai suoi personaggi e a un Sud ricco di storie degne di essere raccontate senza retorica, ma con la poesia: così, se all’inizio il rione è un muro che esclude la conoscenza di tutto il resto, alla fine a cambiarne la percezione, a schiudere la speranza di un riscatto arriva il più grande poeta italiano dell’800: Alessandro, che ha lasciato la scuola per colpa di una professoressa che pretendeva che lui imparasse a memoria L’infinito, visita la tomba di Leopardi a Piedigrotta, dove improvvisa una riflessione personale sul significato della siepe del monte Tabor comparandola, in una riflessione profonda e condivisibile, al muro del rione, barriera oltre la quale si trova “un’infinità di cose”: «E se un giorno io non riuscirò a vedere cosa c’è dietro a questo muro, spero almeno che riusciranno a farlo i miei figli». È la stessa nostra speranza di spettatori: che la poesia e la bellezza del cinema diventino strumenti di riscatto emotivo, sociale ed esistenziale per gli Alessandri e i Pietri di tutti i Rioni Traiano del mondo.

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