La ricotta, di Pier Paolo Pasolini (1963)

di Laura Pozzi

“Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati. Ebbene, io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda “La ricotta”, la Storia della Passione – che indirettamente “La ricotta” rievoca – è per me la più grande che sia mai accaduta, e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti.”

Pier Paolo Pasolini

La ricotta insieme ad Accattone e Mamma Roma completa la trilogia del sottoproletariato firmata da Pier Paolo Pasolini. Progettato dallo scrittore come lungometraggio, diviene un corto su richiesta del produttore Alfredo Bini che lo inserisce nel progetto Ro.Go.Pa.G. Il film diviso in quattro episodi (Illibatezza, Il nuovo mondo, La ricotta, Il pollo ruspante), reca nel titolo i nomi dei quattro registi chiamati a dirigere i rispettivi segmenti narrativi: Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti. “Quattro racconti di quattro autori che si limitano a raccontare gli allegri principi della fine del mondo”. Così recitano gli scatenati titoli di testa. Nato da una felice intuizione  di Roberto Rossellini il film sarà duramente osteggiato dalla censura, il mediometraggio pasoliniano incriminato e sequestrato per vilipendio alla religione di Stato e il suo autore condannato a quattro mesi di reclusione con la condizionale. L’odissea censoria si protrarrà a lungo fino a quando il film sottoposto a tagli e modifiche verrà riproposto nuovamente nelle sale col titolo Laviamoci il cervello. Il 6 maggio 1964 la Corte d’appello di Roma assolve Pasolini perché il fatto non costituisce reato, ma il 24 febbraio 1967 la Corte di Cassazione annulla la sentenza e dichiara il reato “estinto per amnistia”. La sceneggiatura de La ricotta prende vita durante la lavorazione di Mamma Roma e come spiega il regista al suo assistente Carlo Di Carlo “sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul Calvario le tre croci, la Maddalena, i due angeli…il protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell’attimo in cui viene inchiodato è colpito da un infarto.” La confidenza sottolinea, così come le due didascalie iniziali tratte da San Marco e San Giovanni la sconfinata ammirazione di Pasolini per il Vangelo, considerata una grandissima opera intellettuale che consola e riempie.

Alle porte di Roma nel selvatico, ondulato e fordiano scenario della Caffarella un meditabondo regista (Orson Welles) che si autodefinisce marxista ortodosso sta girando un film sulla Passione di Cristo. Nella parte del ladrone buono Stracci (Mario Cipriani) un ultimo, un “morto di fame” , perennemente affamato e privato dei diritti più elementari. Il set è piuttosto convulso e alcune comparse, davanti ad una opulenta tavola imbandita, si abbandonano a un twist scatenato. Dopo aver donato il cestino del pranzo alla sua povera e numerosa famiglia accorsa poco distante dal set, l’uomo si traveste per ottenere un nuovo pasto, ma richiamato dalla produzione non riesce a consumarlo e lo nasconde in una grotta. Ma anche stavolta dovrà fare i conti con l’atavico appetito del cagnolino della prima attrice che in sua assenza lo divora. Nonostante ciò riesce a procurarsi una sostanziosa porzione di ricotta, ma l’indigestione gli sarà fatale, portandolo alla morte durante la scena della crocifissione. L’episodio presenta due realtà giustapposte, ma estranee: da una parte il mondo del regista Pasolini, fotografato in bianco e nero, specchio dell’Italia arcaica, docile e analfabeta in cui l’emarginato Stracci è chiamato a interpretare la parte del ladrone buono e dall’altra il mondo a colori del regista Orson Welles che sta girando il film. Stracci fa parte di quel mondo sottoproletario abbandonato a se stesso e di cui nessuno si occupa: è un uomo che non ha subito il condizionamento della società consumistica e morire è l’ unica possibile ribellione, un modo per farsi capire e dimostrare la propria esistenza. La precaria realtà della sua famiglia è ferocemente condizionata dal bisogno più elementare della vita di un uomo: la fame. Basta pensare al suo travestimento per bissare un altro cestino e alla corsa “accelerata” in perfetto stile chapliniano verso il banco della ricotta. Ma intorno a Stracci la “sacralità” è sempre ricostituita: il canto funebre del Dies Irae echeggia sulla composita dignità della famigliola affamata che mangia, sul cagnolino della diva che gli divora il pranzo e sullo “Stracci show” finale, perché come dice il regista la morte è poeticamente legata al digiuno, alla fame, al pasto. Mentre al molteplice rigore di queste scene, si oppone una musichetta ballabile (il twist) che introduce il gruppo di attori, gli addetti alle riprese cinematografiche e l’ingresso in scena del giornalista.

Al polo opposto si agita caotica e volgare la troupe del film: il regista, l’assistente ringhioso, gli “aiuti” che ne rilanciano gli ordini, le attrici corteggiate da bulletti contraffatti da angeli e la compagine di comparse e tecnici che ironizzano sovente sulla fame di Stracci. Le uniche due sequenze a colori (oltre quella d’apertura e chiusura) sono le scene della Passione che il regista Orson Welles si appresta a girare ricorrendo alla tecnica dei tableaux vivants, ossia ricostruendo puntigliosamente due emblematici dipinti del Manierismo cinquecentesco italiano: La Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo al Sepolcro di Pontormo. Dai pittori manieristi Pasolini percepisce l’inquietudine tipica di una società in crisi e il dramma interno dell’artista incompreso. Soprattutto in Pontormo, avverte la tragedia dell’artista solitario, fuori dai giochi di potere non interessato ai zecchini d’oro, né ai potenti, bensì al suo rigore morale. La bellezza delle immagini, che segnano anche l’approdo di Pasolini al colore è dovuta alla ricostruzione esatta dei dipinti. Nel primo tableau vivant che ricostruisce l’opera di Rosso Fiorentino il carattere dell’astrattezza prende il sopravvento: le figure si intagliano su un cielo fermo, privo di profondità e una luce cruda taglia i corpi come diamanti. Le figure sono stravolte per eccesso di passione e l’atmosfera irreale è sottolineata dai colori vivi e stridenti disposti con audacissimi accostamenti. In Pontormo i riferimenti figurativi alla Pietà di Michelangelo e al Trasporto di Cristo di Raffaello sono rivisitati con volontà di rottura dei canoni classici e con accentuazione espressiva del tema religioso. Pontormo adotta la tavolozza dei “colori cangianti” del Michelangelo della Sistina: le diverse sfumature del blu, i verdi teneri, gli arancioni, i rosa radiosi e i rossi scarlatti.

I colori con la loro luminosità e trasparenza conferiscono al dipinto una serenità che associa all’idea della morte quella della resurrezione. I personaggi sono inseriti in uno spazio indistinto, privo di punti di riferimento architettonici o prospettici e la composizione si snoda in verticale senza alcun punto d’appoggio. Nelle riproduzioni di Rosso Fiorentino e Pontormo, Pasolini ironizza sulle facce dei personaggi che compongono i tableaux vivants e lascia intatte la composizione e i colori. Questa tecnica traduce in immagini raffinate la visione estetizzante del regista Welles che concepisce il film attraverso la ricostruzione dei quadri manieristi. La complicata messa in scena dei dipinti sottolinea l’accattivante e sofisticata artificialità del lavoro sul set e denuncia la distanza del cinema dalla vita e dai bisogni reali dei suoi protagonisti. La passione autentica è quella di Stracci che solo ed umiliato ripercorre grottescamente alcune tappe della Via Crucis: il dileggio sulla croce da parte della troupe e l’ultimo fatale pasto o meglio l’ultima “abbuffata” prima di morire. La ricotta come dichiara Pasolini è la sua opera meno calcolata, scritta in un periodo artisticamente intenso che riflette uno sguardo più mauro, saggio e distaccato nei confronti della realtà italiana. La consapevolezza che il mondo sottoproletariato sta per essere cancellato dalla società dei consumi lo induce a prendere le distanze dalle solenni configurazioni di Accattone e la sua irrequietezza interna si riflette nello stile del racconto: si passa dai campi lunghi ai primi piani senza scale intermedie, dalla visione oggettiva a quella soggettiva, dall’assenza quasi totale di parole nella parte iniziale, alla loquacità martellante di Cristo nella sequenza del discorso alla montagna, dalla musica colta a quella popolare. Il concetto di opera chiusa e autosufficiente, caratteristiche dei due film precedenti, lascia il posto a una struttura magmatica, disordinata e caotica di elementi.

 Nel doppio caos del set, quello reale messo su da Pasolini e quello fittizio inventato ad hoc, affiorano la finzione e il suo retroscena che diventano la sostanza della storia. Orson Welles è il portavoce del regista bolognese e contemporaneamente la sua caricatura, è il regista pretenzioso assorto in sublimi pensieri che pensa al suo film in chiave estetizzante e nello stesso tempo è l’intellettuale cinico che inveisce contro la borghesia recitando i versi di Pasolini stesso. Sotto le spoglie dell’imponente Welles, Pasolini entra in scena e lancia i suoi acuminati strali sulla società italiana non senza ironizzare sulla propria ideologia marxista. Lo scambio di battute con il volgare e ossequioso cronista è crudo e spiazzante. Ma anche estroso come la sibilillina definizione su Federico Fellini “Egli danza, sì, egli danza“. Nella stesura originale la domanda non si riferiva al regista riminese, ma allo scrittore Pier Paolo Pasolini; dunque il poeta riferiva a se stesso la misteriosa affermazione che, nel film, fa dire a Orson Welles e “il danzare” simboleggia senza dubbio la vitalità e la creatività dei suoi set e di quelli felliniani.

La scelta del regista americano è legata anche a ciò che Welles rappresenta nell’universo cinematografico mondiale: è il geniale autore del memorabile e rivoluzionario Citizien Kane. Negli anni ’40 il film è una proposta innovativa: sconvolge le regole narrative tradizionali (il racconto lineare), adotta le tecniche del muto come la profondità di campo, la dinamica dell’inquadratura e dell’angolazione: utilizza il grandangolo perché simula il punto di vista dell’occhio umano e attua un montaggio serratissimo di piani sequenza. Ma l’omaggio al grande cinema non si limita a questo e prosegue con la scelta degli attori che compongono il cast della ricotta: Lamberto Maggiorani prototipo dell’attore preso dalla strada, interprete di Ladri di biciclette, Elsa de Giorgi diva degli anni Quaranta tornata davanti la macchina da presa, Laura Betti e Edmonda Aldini volti e corpi di un cinema colto.

La ricotta, ha la stessa complessità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie e come le sue poesie esprime la polemica culturale e religiosa. La poesia parte integrante della sua idea estetica-religiosa, è sempre presente nel racconto, ma c’è un momento in cui diviene protagonista assoluta della scena. Durante l’intervista Welles risponde al cronista con questi versi: “Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più”. Attraverso la monumentale figura del regista americano, Pasolini grida la sua rabbia contro la nuova e spietata società dei consumi rea di spazzare via la grande tradizione italiana e i suoi antichi valori. Il passato è inteso dal poeta come storia nei suoi prodotti irripetibili e sublimi che non basta ricordare o amare cinicamente come la borghesia, bensì amare onestamente e preservarli dall’estinzione. Poesia in forma di rosa che segue La ricotta, è un romanzo autobiografico in versi che riflette la crisi morale dello scrittore, il vuoto creato dalla perdita del valore del suo mondo celebrato nei romanzi e nei film. In un momento di crisi così acuta di tutta la cultura italiana, Pasolini proietta fuori il suo malessere e lo concreta nella realizzazione di opere d’arte.

Il film è disponibile su Youtube

2 risposte a "La ricotta, di Pier Paolo Pasolini (1963)"

Add yours

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: