di Laura Pozzi

Los Angeles, 10 marzo 1928. Christine Collins (Angelina Jolie), madre affettuosa e infaticabile lavoratrice presso una compagnia telefonica, decide di sacrificare il suo pomeriggio libero in compagnia del piccolo, ma impavido Walter per correre al lavoro a sostituire una collega malata. Un tenero saluto all’adorato figlioletto di 9 anni insieme alla promessa di colmare la mancanza il giorno successivo. Un ultimo sguardo, profondo e dolente come la tragedia che di lì a poco stravolgerà la loro esistenza. La riservata e crepuscolare Christine non potrà mantenere la promessa perchè al suo ritorno Walter è scomparso. Dopo lunghi mesi di apprensione vissuti sul filo di un indomita speranza, il piccolo viene miracolosamente ritrovato e riportato a casa. Tutto conduce verso un rassicurante lieto fine se non fosse che il “monello” sceso dal treno per ricongiungersi a Christine non è Walter. Uno smacco, un’ imperdonabile caduta di stile e credibilità che le istituzioni americane non possono permettersi all’alba di un momento storico molestato da una Grande Depressione pronta al gran debutto.

Piuttosto che ammettere l’evidenza risulta molto più comodo demonizzare l’ignara e anonima Christine sfilacciando a poco a poco le sue certezze, svilendo la sua tenacia, soffocando il disperato, ma composto grido di dolore che come un macabro mantra la spinge a ripetere per gran parte della storia che quello sfrontato mocciosetto non è suo figlio. Già perché dietro quell’inspiegabile scomparsa si cela una realtà infinitamente più raccapricciante, orrorifica di un’ efferatezza tale da superare qualsiasi immaginazione. Ma Christine con la sua voglia di verità, diventa un personaggio scomodo, ingombrante, da rimuovere nella memoria collettiva il prima possibile. Il rimedio più efficace consiste nel farla credere pazza, rinchiuderla in manicomio e metterla a tacere per sempre. Ma con l’aiuto di un investigatore e del reverendo Briegleb (John Malkovich) un presbiteriano impegnato a demolire a colpi di sermoni il LAPD, Chistine riuscirà a conservare la speranza.

Presentato in concorso al festival di Cannes nel 2008 e candidato a tre premi Oscar (miglior attrice, miglior fotografia e miglior scenografia) Changeling, tratto da una storia vera è la ventottesima regia di Clint Eastwood. Dopo perle cinematografiche quali Mystic River, Million Dollar Baby, Lettere da Iwo Jima, nessuno immaginava che il texano dagli occhi di ghiaccio riuscisse ad incastonare nella sua preziosa filmografia l’ennesimo diamante narrativo dalla luce abbagliante. Eppure il vecchio Clint continua a ruggire ipnotizzando lo sguardo, pungolando la mente, scuotendo la coscienza, attraverso gli stilemi di un cinema classico per atmosfera, senso dello spazio, rarefazione di psicologie e stati d’animo. Un grande racconto ammantato di pietà, speranza, coraggio. Per Christine non esiste la resa, ma solo la capacità di credere a quel sogno infranto che la Grande Depressione (non solo emotiva) ha spazzato via. Un sogno lungo un giorno, evocato nello struggente e inviolabile incipit, quando alla vigilia della scomparsa la regia del cavaliere pallido si mette al servizio dell’esclusivo rapporto tra Christine e suo figlio. Eastwood si appassiona alla storia di questa madre courage grazie alla sceneggiatura di J.Michael Straczynski glorioso fumettista ed ex giornalista capace di trasformare, con l’ausilio di logori materiali d’archivio, un fatto di cronaca in uno script doloroso e avvincente. Lo spettro della Grande Depressione offre al regista la possibilità di rivivere sulla propria pelle un periodo storico di latente opacità, caratterizzato da incertezze, speranze disilluse e da quella vita nomade che costringeva la sua famiglia a reinventarsi un futuro.

Come in Honkytonk Man anche la protagonista di Changeling è una donna messa alle corde, una “perdente” costretta al pari di Maggie Fitzgerald (l’indimenticabile Hilary Swank di Million Dollar Baby) a boxare, a schivare e infine a proteggersi dai colpi e dalle storture di un sistema tramutatosi di colpo in feroce e inattaccabile nemico. Il mondo imperfetto e fuori misura cucito sull’esile fisicità di un Angelina Jolie di sorprendente bravura e intensità è un mondo intriso di profonda solitudine. Nessuno è inizialmente al suo fianco per sostenere l’estenuante battaglia contro un figlio non suo e nessuno è con lei quanto torna ad essere una “ragazza interrotta” all’interno del manicomio. Ma è proprio la lacerante solitudine che la avvolge in un’aurea quasi sacrale a fare di lei l’antieroina eastwoodiana, per eccellenza. Ancora una volta un personaggio ordinario messo a confronto con un evento drammaticamente straordinario e con una roccaforte politica marcia, dai contorni poco idilliaci. L’insofferenza mostrata dal regista verso una struttura sociale intesa come insieme di coercizioni che limitano la libertà dell’individuo e come invisibile prigione che mutila la voglia di vivere e distrugge le regole di una convivenza basata sul sentire, sulla morale e sull’onestà etica è la stessa di quell’ispettore Callaghan accusato più volte di brutale individualismo. Clint per raccontare il suo dramma ancora una volta declinato al femminile, opta per una narrazione classica, ma “sporcata” dalle continue irruzioni di tasselli narrativi fondamentali nel costruire un mosaico finale che nel corso della storia, lunga ben 140 minuti cavalca audacemente più generi, dal dramma, al thriller, al legal movie fino all’horror. Tuttavia Changeling è un film ideato, plasmato e costruito intorno all’iconica figura di Angelina Jolie. A partire dall’enigmatico titolo che pur alludendo alle leggende del folclore inglese dove le fate rapiscono i bimbi più belli per lasciare al loro posto quelli più brutti, omaggia il suo nome (quasi) per intero. L’attrice americana abbandona definitivamente i panni della femme fatale, accantona la sua prorompente bellezza per entrare in simbiosi con un personaggio che da solo (e senza Oscar) vale una carriera.

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