di Marzia Procopio –
Infatti ho ottenuto dalle potenze di sotterra di avere una sepoltura
e di gettarmi nelle braccia di mia madre.
Euripide, Ecuba, vv. 49-50
Qualcuno, su una sedia a rotelle, sistema un uncino e una catena sopra di sé, preparando il proprio suicidio: così inizia Pietà, diciottesimo lungometraggio del compianto regista sud-coreano Kim Ki-duk scomparso lo scorso 11 dicembre, un’opera complessa che, in appena 104 minuti e intrecciando diversi temi e suggestioni, sviluppa i suoi temi in maniera talmente densa, profonda, disturbante che rivelarne la trama, come accadeva nel prologo euripideo, consente di seguire meglio i modi del suo dispiegamento dando spazio al come – la potenza delle immagini e la profondità straziante delle sue riflessioni – più che al cosa.

Kang-do (Lee Jeong-jin) ha trent’anni e nessuno che lo ami; vive in una periferia degradata e degradante di Seul e si guadagna da vivere lavorando per un usuraio. Prima di prestare il denaro, costringe le vittime a sottoscrivere una polizza assicurativa contro gli infortuni; quando i debitori, prevedibilmente, non riescono a restituire il prestito, li mutila per riscuotere il premio dell’assicurazione. Un giorno l’uomo, che ha il volto sfatto e lo sguardo perduto di un’anima dannata, si accorge di essere seguito da una donna di età indefinibile, certamente più grande ma non di molto, Jang Mi-sun (Jo Min-su), la quale gli rivela di essere la madre che, giovanissima e impreparata, lo aveva abbandonato appena nato. Dopo averla sottoposta a prove via via sempre più umilianti che culminano in uno stupro – “se non sei mia madre, smetto, ma se sei mia madre dimostramelo” – l’uomo infine si convince della sincerità della donna e la accoglie nella sua vita; da questo momento incomincia a provare rimorso, e pietà, per le persone che ha menomato nel corpo e nell’anima, privandole della possibilità di condurre una vita dignitosa. Divenuto vulnerabile e spaventato dalla possibilità di perdere la madre – ha molti nemici che potrebbero volerlo colpire – si licenzia, ma proprio mentre sta diventando umano, nel momento in cui si sta aprendo alla vita e alla gioia grazie all’amore ritrovato, la donna inizia ad allontanarsi.
Tassello per tassello, lo spettatore viene messo a parte del segreto della donna, della verità: in un magazzino abbandonato, chiuso in un congelatore, c’è il cadavere di un ragazzo, il vero figlio di lei, suicidatosi in seguito a una menomazione causata proprio da Kang-do (come mostrato in flashback all’inizio del montato). Qualche giorno dopo, la madre inscena il proprio falso rapimento, che dà inizio alla sua ricerca da parte di Kang-do e a una sorta di via crucis dell’uomo presso ognuno dei suoi antichi ‘clienti’, un redde rationem che lo costringe a ‘toccare’ il dolore e il degrado causato con il suo lavoro, spingendolo a chiedere loro un perdono impossibile. Trovatala infine in un palazzo abbandonato, Kang-do assiste disperato alla sua caduta, convinto che si tratti di un omicidio da parte del suo inesistente rapitore. In realtà la donna si è lasciata precipitare per realizzare la sua vendetta: fargli fare esperienza di una relazione affettiva per poi strappargliela, facendogli così provare il dolore della perdita.

Girato in poche settimane con due cineprese, una in mano al direttore della fotografia Jo Yeong-jik, l’altra guidata dal regista, Pietà riprende i temi del film d’esordio del regista sud coreano, Ag-o (1996) – l’incontenibile avidità, il desiderio cieco e insaziabile di costruirsi una reputazione di persona senza scrupoli, l’incapacità di coniugare questa fame con una dimensione affettiva e morale – incardinandoli in una struttura diegetica che muove intorno al macro-tema della vendetta, assai caro alla tradizione cinematografica coreana: modello di Kim Ki-duk è la Vengeance trilogy (2002-2005) di Park Chan-wook, in particolare il terzo film, Sympathy for Lady Vendeange, del 2005, che il cineasta reinterpreta adottando l’esplicito simbolismo cristiano e aggiungendo elementi tematici e stilistici a lui congeniali: deviazioni sessuali, una fotografia raggelante, una struttura narrativa che chiude progressivamente le possibili vie d’uscita.
Titolo e locandina (una fotografia scattata appositamente per la pubblicizzazione del film) rimandano alla Pietà Vaticana di Michelangelo, ma per rovesciare nichilisticamente il senso del mistero cristiano; qui non c’è salvezza possibile, e Kim Ki-duk lo dichiara fin dalla scena d’apertura: un luogo squallido, una luce bianca e gelida, un uomo giovane dal viso tumefatto che si sveglia come già morto.

Per affermare il senso di uno smarrimento estremo, di un riscatto impossibile, di un sacrificio che non salva ma condanna tutti al dolore, il regista sceglie di girare nei meandri – popolati da un sottoproletariato cencioso di operai e artigiani – di Cheonggyecheon, una vasta area nel centro di Seul dove aveva lavorato da giovane in fabbrica: un luogo opprimente, fatto di vie sporche, strette, cupe, abitate da donne e uomini poveri, attraversate da animali che vengono rapiti per dispetto, o ammazzati, con un’indifferenza che scuote le nostre coscienze di occidentali ipocritamente poco abituati a un rapporto così cruento con la carne che mettiamo a tavola. «Lo spazio è il luogo da cui tutto comincia», aveva spiegato Ki-duk, e quanto più esso è evidente, presente, ‘fisico’, tanto più i protagonisti sembrano senza radici, senza storia, animati solo dall’interesse per il denaro, sottolineato dalla domanda, più volte posta da Kang-do ai suoi “clienti” e destinata a rimanere senza risposta: «Che cos’è il denaro?».
L’idolatria del denaro, l’impossibilità di trovare un lavoro che assicuri una vita dignitosa, il disinteresse della società per gli ultimi sono i bersagli della critica del cineasta. Tutto è disumano, in una vita così: lo sottolinea l’insistenza della macchina da presa sulle macchine (torni, fresatrici) che l’aguzzino usa per mutilare le sue vittime, lo trasmette la tecnica di ripresa usata in una scena della prima parte, quando Kim Ki-duk, ad ogni schiaffo dato con forza da Kang-do a un debitore davanti agli occhi straniati della madre impotente, fa vibrare la macchina da presa sul proprio asse.

Alla spietatezza della vita quotidiana corrisponde la durezza con cui Kang-do tratta la sedicente madre quando tenta la scalata al suo cuore, decisiva per la concretizzazione della vendetta: un ingresso lento, faticoso, sottoposto a prove di crescente durezza che la donna accetta con pazienza, caparbietà, (apparente) dolcezza. Il personaggio di Mi-sun è molto complesso, perché la donna è portatrice di vendetta, ma si presenta come madre archetipica, come anticipato dall’evocativa locandina del film, nella quale i corpi drappeggiati in bianco e in ocra dei due attori riproducono la posizione di Maria protesa in compianto sul corpo esanime di Cristo. In essa, la madre piange il figlio morto, prova per lui pietà: per contro, senza una madre che piange, senza la pietà e la salvezza dell’amore materno, nessuno impara la com-passione, il sentimento del ‘patire-con’. Kang-do, cresciuto senza una madre, è indifferente alla condizione esistenziale altrui, incapace di sentire la sofferenza, s-pietato. Non avendo fatto esperienza dell’accudimento, della cura, vive senza speranza né disperazione, senza niente da perdere, e il correlativo oggettivo di questo niente è il denaro in nome del quale egli distrugge le vite degli altri, la rappresentazione del niente che le persone, gli affetti, le relazioni sono nel suo mondo così radicalmente estraneo all’essere.

Quando Kang-do comincia a credere al racconto di Mi-sun, tutto cambia, e a operare la trasformazione è la pietà incarnata nel corpo delicato della donna, il cui comportamento muove dall’amore assoluto verso il vero figlio, che le dà la forza di architettare e sostenere la complessa strategia di persuasione del non figlio: un sentimento ambivalente, tuttavia, ben evidente quando, nella parte conclusiva del film, in procinto di lanciarsi nel vuoto sotto gli occhi di Kang-do che la implora di fermarsi, la donna è sfiorata da una pietà inattesa per quell’uomo che ha in qualche modo accolto dentro di sé e riconosciuto come suo, e quindi vive contemporaneamente sia la necessità della compassione sia la necessità della vendetta.

Ma la possibilità del perdono dell’assassino è esclusa: egli è colpevole di un male tanto radicale e irreversibile che solo una divinità potrebbe perdonarlo. L’unica scelta che Mi-sun ha di fronte a sé è, tragicamente, far agire questa contraddizione, sottraendo a Kang-do la sua prima ed unica fonte di amore e portandolo ad una disperazione mortale; ma paradossalmente questa vendetta si rovescia in bene, è amore anch’essa, perché – per la forma peculiare che lei sceglie di darle, il falso omicidio – impedisce al ‘figlio’ di mettere in discussione il Bene che seppur fuggevolmente ha conosciuto e quindi di regredire al suo stato precedente. Togliendosi la vita, Mi-sun condanna a morte anche il non figlio, ed è immagine di una potenza straordinaria quella in cui Kang-do è sdraiato accanto ai corpi della Madre e del vero figlio da lui stesso composti in una fossa in riva al fiume per un ultimo compianto.

Subito dopo Kang-Do si incammina, nel bianco ipersaturo dell’immagine, verso il solo, tragico epilogo possibile, una morte che non lascia neppure un brandello di carne da ricomporre per una sepoltura lacrimata, solo una traccia di sangue rosso scuro: se il corpo vivo della madre permette l’incarnazione e la pietà, la morte della madre – sembra volerci suggerire il regista – condanna alla scarnificazione: nell’escatologia rovesciata di Kim Ki-duk, nel suo discorso anti-idolatrico, il viaggio finale di Kang-do indica che una vita senza pietà può andare soltanto verso il nulla.