di Girolamo Di Noto

La prima immagine che mi viene in mente se provo a ricordare il regista coreano Kim Ki-duk, uno dei pilastri del cinema asiatico, purtroppo prematuramente scomparso alcune settimane fa, è a Venezia, nel 2000, alla Mostra del Cinema, quando proiettarono in una sala gremita Seom (L’isola). Ricordo che durante la proiezione del film diversi spettatori avevano avuto malori e svenimenti in seguito a raccapriccianti scene, immagini sconvolgenti, brutali rappresentazioni del corpo. Ricordo, altresì, la grande maestria con cui il regista aveva raccontato la storia, immersa in una natura di una bellezza stupefacente, girata con uno stile d’autore (ritmi rarefatti, impennate surreali e visionarie ), pochi dialoghi, sguardi che valgono più di qualsiasi parola.

Il cinema di Kim Ki-duk ha racchiuso crudeltà e poesia, furiosa violenza e commovente tenerezza, morte ed eros. Nel rappresentare situazioni fisiche al limite del sopportabile, il regista ha sempre proposto un cinema doloroso e coinvolgente in cui due elementi sono spesso risaltati all’attenzione dello spettatore: la violenza e la bellezza. Il lago – cornice naturale carica di fascino – è teatro di una vicenda straziante che vede protagonisti Hee-jin, prostituta che affitta alcune casette galleggianti ad ospiti che hanno qualcosa da nascondere, e Hyun-shik, un giovane assassino in fuga dopo aver ucciso la moglie e il suo amante.

L’arrivo dell’uomo sconvolge l’equilibrio della donna: tra i due nascerà una passione devastante caratterizzata da lampi di sadismo e cura e dedizione verso l’altro, prenderà corpo un rapporto diretto, senza filtri, bello e complesso, enigmatico e destabilizzante. Si può non amare il cinema di Kim Ki-duk, ma sarebbe ingiusto e riduttivo ritenere che la sua intenzione sia stata quella di un’esplicita ricerca del disgusto, di una voluta provocazione. La violenza non è mai fine a se stessa, non viene manifestata dal regista per creare un ” caso ” o per scandalizzare la platea. La grandezza di questo regista venuto a mancare troppo presto è stata quella di aver restituito ai demoni dell’umanità il proprio volto, di aver fatto proprio l’insegnamento di Buñuel che in Un Chien andalou, in una celebre scena, taglia con il rasoio l’occhio di una ragazza, dimostrando come il primo compito del cinema è ferire lo sguardo dello spettatore.

L’intento di Kim Ki-duk è stato quello di costringere lo spettatore ad affrontare il dolore senza ammantarlo di false illusioni, consapevole tuttavia di introdurre l’idea che “attraverso il dolore qualcosa di nuovo può nascere”. “Ciò che mostro nei miei film sono i problemi più rappresentativi della nostra società”. E il regista non può che soffermarsi sull’infelicità, sulla solitudine, sullo smarrimento dell’identità dei suoi personaggi, sul loro risentimento. I drammi della popolazione coreana fanno da sfondo nei suoi film. Se in Pietà, Leone d’oro a Venezia nel 2012, Kim Ki-duk dipinge un mondo crudele e violento dove i corpi vengono venduti e martoriati per pochi soldi, dove gli affari posano le proprie basi nel sangue, se in Ferro 3, il regista, con esiti sublimi, racconta un universo di solitudini, un Paese dove lo sradicamento e l’estraneità sembrano leggi generali, ne L’isola ci si sofferma soprattutto sulla potenza visiva, lacerante di un amore che parla attraverso corpi.

Corpi presentati in rigogliosi paesaggi, sospesi nel tempo, presentati come gabbie dalle quali liberarsi. L’amore, per Kim Ki-duk, è un’ipnosi reciproca ed è anche un’ossessione per l’altro. La prostituta, in questo film, non è una figura sociale degradata che dispensa amore e compagnia notturna, né assume un ruolo sacro, come viene evocato in un altro bellissimo e sconvolgente film del regista coreano, La samaritana, quando Chae-Yang, la protagonista, si soprannominerà Vasumitra in onore della divina cortigiana indiana, la cui leggenda sostiene che sia stata in grado di trasformare in devoti buddisti gli uomini dopo aver avuto rapporti sessuali con loro. Hee-Jin, la silenziosa protagonista de L’isola, fa parte invece delle prostitute pericolose: il suo morboso attaccamento al fuggitivo Hyun-shik porterà all’uccisione di due persone, a tentativi di suicidio, ad esplosioni insostenibili di violenza, a lampi di sadismo inseriti in tableaux impressionisti. La prostituta è l’immagine speculare del maschio violento che si esprime con il linguaggio del corpo e sul corpo. Le parole non bastano per esprimere in modo efficace le profonde ferite interiori dei due personaggi. La loro comunicazione avviene attraverso il corpo e il disagio di cui si fanno carico non è mostrato attraverso dialoghi interminabili, ragionamenti senza fine tanto cari al pubblico occidentale, ma reso esplicito da silenzi, immagini simboliche che si prestano a molteplici interpretazioni, uomini che abboccano come pesci, copiose fuoriuscite di sangue che riecheggiano la purezza.

Kim Ki-duk è abile, dal momento che laparola non riesce a trasmettere il malessere dei due giovani, nel seminare simboli aperti e lo fa attraverso gli oggetti riconducendoli ad esigenze diverse dall’uso che hanno solitamente. Se in Ferro 3, la mazza da golf viene trasformata in un’arma impropria, o nel film L’arco, l’oggetto diventa uno strumento musicale, ne L’isola l’amo da pesca si fa carico di numerose metafore, diventa veicolo di significati che il semplice parlare non può esprimere. Amo che abbocca l’uomo-pesce, amo come metà di un cuore, amo che purifica, amo che uccide.

Immagini serene e contemplative si alternano ad altre estremamente dolorose. Kim Ki-duk è straordinario nel rappresentare l’isola come un mondo elegiaco, sospeso nel tempo, un paesaggio edenico, solo in apparenza conciliante ma nella realtà inquieto.

L’acqua, elemento simbolico fortemente presente nel film, si fa portatrice di significati opposti: è fonte calma e di serenità per gli animi turbati, mostra e nasconde, rivela sotto la superficie qualcosa di differente da quello che si potrebbe immaginare, è un posto in cui trovare rifugio, elemento materico, ma anche flusso incontenibile di passioni. Sostiene case galleggianti che sono tane per assassini e case di piacere, è vita che scuote, accarezza e travolge o semplicemente fluisce.

La grandezza di Kim Ki-duk, la cui morte inattesa ha lasciato sgomenti, come i finali imprevedibili dei suoi film, è stata quella di aver raccontato storie liquide con uno stile intriso di lirismo e furore, che hanno dato sì sgomento ma anche riflessione, curiosità e tanta ricchezza di immaginazione.

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