La ragazza in vetrina, di Luciano Emmer (1961)

di Laura Pozzi

Accompagnato da una surreale quanto squallida storia di censura, (si consiglia la visione su Youtube del filmato in cui il regista, imbestialito, mostra e commenta lo scempio subito) La ragazza in vetrina è il film che per un trentennio tiene Luciano Emmer lontano dal grande schermo. Regista schivo, raffinato, autore insieme ad Enrico Gras di abbaglianti e suggestivi documentari artistico-narrativi (ricordiamo fra i tanti Racconto di un affresco, girato all’interno della cappella Scrovegni e narrato da Gino Cervi) dove il valore e il significato delle opere  vengono espresse attraverso il rigore e la potenza formale di immagini “dipinte”, il regista veneto esordisce al cinema nel 1950 con l’iconico e corale Domenica d’agosto, proseguendo con una filmografia trattata spesso con supponenza e relegata tra le fila di un neorealismo cosiddetto minore. Dopo l’umiliante odissea vissuta e patita dal suo ottavo lungometraggio, il disagio e il disgusto per quel mondo ipocrita e bacchettone divengono intollerabili, tanto da costringerlo a prenderne volutamente le distanze per tuffarsi nel bianco e nero della TV e nel vivace mondo della pubblicità dove realizzerà gli indimenticabili caroselli, preziose “rovine” del nostro glorioso passato televisivo. Un sottobosco artistico che gli consentirà per sua stessa ammissione di rifuggire l’inevitabile declino e degenerazione artistica di una commedia italiana nella quale stenta a riconoscersi, regalandogli la possibilità di continuare a “girare” il suo cinema da vero pioniere. Tuttavia nel 1990 torna sui suoi passi, realizzando Basta! Ci faccio un film, ma i postumi lasciati dall’antica ferita inferta a quella sfortunata pellicola continuano a farsi sentire e a sanguinare copiosamente . Un’epistassi fermata dal provvidenziale e decisivo intervento della Cineteca Nazionale, che sotto la sua supervisione deciderà di farla tornare all’antico splendore, attraverso un minuzioso e complesso lavoro di restauro finalizzato al recupero della versione integrale e al reinserimento delle scene mutilate dai tagli censori.

Ma cosa c’era di tanto oltraggioso e offensivo da giustificare un tale accanimento politico culturale da parte della Democrazia Cristiana? A ben guardare nulla, perché in questa vicenda di assurdo e inaccettabile c’è solo l’atteggiamento ottuso e bigotto di una commissione di censura che non concede il visto, blocca il film per un anno, lo vieta  ai minori di sedici anni e opera dei tagli sanguinosi in grado di stravolgerne completamente senso e contenuto. Scritto da Rodolfo Sonego e sceneggiato tra gli altri da Pier Paolo Pasolini il film si confronta con due temi particolarmente spinosi: emigrazione e prostituzione. Tematiche particolarmente sentite dallo stesso Sonego che deciderà di scrivere il soggetto dopo un’esperienza simile vissuta in prima persona. L’approccio, seppur travestito da commedia agrodolce è tutt’altro che indolore soprattutto per l’inevitabile riferimento alla tragedia di Marcinelle avvenuta in Belgio quattro anni prima dove 256 minatori tra cui 136 italiani persero la vita in seguito ad un incendio esploso probabilmente, ma non solo per inadeguate o mancate misure di sicurezza. Ma Emmer non è interessato a realizzare un film di denuncia, (anche se tutta la prima parte girata all’interno della miniera, potrebbe far pensare il contrario) piuttosto a rischiarare le zone d’ombra di una realtà ruvida, brumosa, poco invitante con protagonisti giovani connazionali costretti ad espatriare ed inventarsi un futuro. Una partenza spesso indigesta, ma necessaria e carica di aspettative alimentata dal fermo proposito di tornare per scongiurare definitivamente un nuovo possibile “esilio”. Vincenzo (Bernard Fresson) è un giovane italiano che insieme ad altri coetanei arriva in Belgio per lavorare in una miniera di carbone. L’approccio non è dei migliori, ad accoglierlo una desolante realtà fatta di edifici in lamiera, brande disagevoli, spazi angusti e limitati come celle carcerarie, da condividere con altri “spaesati”. In aggiunta un lavoro alienante, sporco e soffocante e una malcelata nostalgia di un passato “natio” che non di rado bussa alla porta.

Durante il  primo giorno di lavoro un crollo improvviso lo imprigiona nelle viscere della terra insieme al rude e gradasso Federico (un incontenibile e sempre gigantesco Lino Ventura) e a Mustafà un emigrato africano che avrà la peggio. Abbandonata ogni speranza di salvezza viene portato fuori tre giorni dopo, ma il trauma subito lo convince a tornare a casa. Non prima di essersi concesso dietro suggerimento dell’impetuoso collega una puntatina nel quartiere rosso di Amsterdam dove ad attenderli ci sono avvenenti ragazze in vetrina pronte a concedersi e a vivere con loro un weekend di puro svago. Ed è proprio in una di queste che scorge Else, futura ape regina algida e statuaria (una fragile e bellissima Marina Vlady) che tra avidi rintocchi di un campanile e improbabili no kiss riuscirà a confondere i suoi piani. Il film si può suddividere idealmente in tre parti: la prima girata all’interno della miniera occupa gran parte della storia ed è senza dubbio quella in cui gli sceneggiatori e lo stesso regista dedicano maggiore attenzione. L’accurata messa in scena caratterizzata da un taglio quasi documentaristico, ci catapulta di colpo all’interno di una realtà cruda e  inospitale. Lo zelo con con cui il regista mostra le allucinanti condizioni di lavoro a cui sono sottoposti gli operai sono un pugno nello stomaco e riconducono senza troppi preamboli al clima irreale e asfittico di un conflitto armato. Emmer gira la preparazione che antecede il turno di lavoro, l’arrivo in miniera e il successivo “arruolamento” alla stregua di uomini mandati al fronte. L’umore in cantina di operai non molto dissimili a soldati in trincea, si percepisce dagli sguardi bassi, dalle mezze parole pronunciate controvoglia dalle battutine lanciate per sdrammatizzare e dagli attrezzi di lavoro imbracciati come fucili. Il forzato e per nulla scontato isolamento toccato a Vincenzo e ai suoi compagni ha il sapore di una disfatta, di una ritirata prossima alla fine. Vedere filmato in modo così iperrealistico il futuro che attendeva i giovani costretti ad emigrare poteva risultare inammissibile soprattutto perché privo di eroismo. Giovani reduci senza medaglie al valore, confortati solo da momentanee effusioni amorose concesse da ragazze “in mostra”.

Temi delicatissimi trattati da Emmer con acume, sensibilità e un’umanità tale da spogliarli di qualsiasi retorica per farli convivere pacificamente. Nella seconda parte, quella dedicata al soggiorno nel quartiere a luci rosse, i drammatici toni iniziali cominciano a stemperarsi, la narrazione riprende fiato inalando significative boccate d’ossigeno e la storia torna a respirare regalando inaspettati momenti di leggerezza. Nel week end che precede il ritorno di Vincenzo, abbiamo modo di simpatizzare con personaggi inizialmente distanti, ma assolutamente riconoscibili nei tic e luoghi comuni tipicamente italiani incarnati da Federico. Nel tumultuoso rapporto con Vincenzo è possibile intravedere echi di Bruno Cortona e Roberto Mariani, ma stavolta con un epilogo diverso. Ma quello che accomuna e vela di struggente malinconia questa storia di giovani perdenti è quel sentimento di gentilezza che avvolge le loro azioni e che riesce a mitigare per alcuni momenti l’opprimente realtà. Vincenzo tratta Else con garbo e gentilezza, lasciando da parte offensivi pregiudizi. La stessa ragazza alla fine infrange quella “vetrina” cercando e accettando quel kiss negato, ma rifiutando i suoi soldi. In un finale di reciproche “gentilezze” scivoliamo dolcemente nella terza parte quella che Emmer non mostra, ma lascia immaginare. Tuttavia l’ultima parola spetta a Federico che tornando in miniera ritrova con stupore l’amico. Dopo aver saputo il motivo della non partenza si lascia andare ad una sfrenata contentezza con un’espressione talmente colorita da far impallidire le smaglianti rivendicazioni dei benpensanti. Stranamente la (sorda) censura decise di non intervenire, alimentando un mistero inspiegabile e (ancora una volta) tutto italiano.   

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