di Adriano Sgarrino

Hideo, uomo di mezza età, vive da solo con una bambola gonfiabile a cui ha dato il nome di Nozomi. La considera come la sua compagna di vita: la veste, le racconta come è andata la giornata, la porta in giro su una sedia a rotelle e ci ha sesso. Ma, quando Hideo è al lavoro, Nozomi è solita animarsi, vestirsi da donna di servizio e uscire di casa per conoscere il mondo che ammira con stupore. Trova impiego presso una videoteca e si innamora, ricambiata, del suo collega Junichi. Ma qui cominciano i problemi…

Kore’eda adatta un manga di Yoshiie Gōda in un film che, secondo quanto da lui stesso affermato, è incentrato sulla solitudine della vita urbana e solleva la complicata questione di che cosa significhi essere umani. Nozomi non è fatta di carne e ossa ma sviluppa sofferta consapevolezza di sé ed è, benché ingenuamente, capace di provare sentimenti e godimento: non è forse questa già condizione necessaria e sufficiente per essere ritenuti umani? Non ha diritto anche lei a non essere vista soltanto come oggetto di trastullo, se riesce a prendere vita? E, riuscendo a prendere vita, non ha diritto anche lei a cercare il suo posto nel mondo? A cercare la meraviglia, la felicità? A innamorarsi? Il film, molto condivisibilmente, non arriva a dare risposte definitive ma già essere riuscito a smuovere le coscienze degli spettatori, facendoli interrogare su quesiti così profondi, è un successo non trascurabile. Finale da pelle d’oca, che non può lasciare indifferenti.

La critica dapprima accolse tiepidamente il film, giudicandolo erroneamente quasi un’opera su commissione: Kore’eda, da bravo giapponese, prima o poi aveva quasi l’obbligo di misurarsi con un manga, dicevano. Ma da qualche tempo si registrano crescenti e piene rivalutazioni, con diversi osservatori che hanno parlato di una meditazione dolorosamente bella sulla solitudine e sul desiderio nella vita di città: e a ragione.

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