di Roberta Lamonica
Giuliana: “Aiutami! Aiutami, ti prego! Io ho paura di non farcela! Ho paura!”
Corrado:“Non fare così, calmati. Perché hai paura? Di che cosa?”
Giuliana:“Delle strade, delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto!”

Sinossi de Il deserto rosso
Su uno sfondo sfocato di tralicci e ciminiere fumose si staglia la figura di una donna elegante con i capelli rossi e un cappottino verde brillante. Una Mrs Dalloway contemporanea che invece di perdersi tra i fiori odorosi e colorati di un negozio cammina incerta nel fango e tra i detriti che circondano l’impianto industriale dove lavora suo marito, quasi sfidandoli con le sue leggere décolleté. Giuliana – questo è il nome della donna – porta per mano suo figlio, un bimbetto obbediente, serio, fin troppo ‘docile’. Il rumore delle macchine è assordante, sovrasta ogni altro suono, quello che viene dall’altoparlante che incita gli operai allo sciopero, quello delle voci di suo marito Ugo e dell’amico Corrado che parlano di fabbriche, operai e delocalizzazione, e quello del canto che Giuliana sente accarezzarla e stordirla al contempo, canto ammaliante, antico ma per qualche motivo disturbante.

È bella, la fabbrica: è audace, pericolosa ed eccitante. Il traliccio e la ciminiera sono vicini, in un amplesso ideale, in un coito industriale in cui il fuoco seminale segnala l’inizio di una nuova genìa. Poco importa se Giuliana si muove controcorrente, come un salmone, o se alcuni operai indossano enormi buste di plastica trasparenti, quasi protezione da quel seme infernale che si spande anche nei loro polmoni: Giuliana ha fame, una fame bulimica. Mangerà dietro un cespuglio spoglio quel panino che chiede disperata a un operaio in pausa pranzo e con altrettanta disperazione proseguirà nell’odissea della sua giornata.

L’uso dei colori ne Il deserto rosso
Nel 1964, Michelangelo Antonioni vince il Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, con Il deserto rosso, film in cui il regista ferrarese esplora per la prima volta l’uso del colore, raggiungendo vette espressive ancora oggi ineguagliate. “Volevo dipingere il film come un pittore dipinge una tela; volevo inventare relazioni di colori, e non limitarmi solo a fotografare colori naturali”, dirà Antonioni. Ed effettivamente i colori del film sono protagonisti incontrastati nel loro essere smontati e ricomposti, irreali: il cipria, il grigio, il lattescente, il fumoso – secondo una palette che ricorda le fredde nebbie invernali – pervadono luoghi e paesaggi (fino a rendere bianco perfino un bosco e densa come fango l’erba dei prati) e sembrano veicolare la risposta visiva ed emotiva dei personaggi che li osservano. Film decisamente ostico, dai dialoghi scarni, pervaso da un’atmosfera oppressiva e dolorosa, Il deserto rosso sviluppa i temi cari al regista, quelli dell’incomunicabilità e della fatica di vivere – già presenti nella ‘trilogia’ (L’avventura, La notte, L’eclisse) – creando un legame diretto tra l’emotività della protagonista e i colori dell’ambiente nel quale si muove, appunto, così come lei li percepisce.

Una Ravenna industriale, location de Il deserto rosso
Una Ravenna moderna e dai colori insoliti, quindi, fornisce un ritratto vivido del nuovo e perturbante paesaggio industriale emerso dopo il miracolo economico italiano degli anni ‘50. La critica francese Michèle Manceaux così analizza le scelte di Antonioni: “Se le finestre di alabastro di Galla Placidia diffondono la luce più dolce del mondo, e se i mosaici blu sono come un tuffo nelle profondità del mare, per Antonioni ciò non conta. Tutto ciò appartiene al passato. Egli ha scelto Ravenna per le sue fabbriche fumose, per i tralicci e le piattaforme petrolifere. Dopo la guerra, le pinete si estendevano fino al mare e la città contava 30000 abitanti. Oggi, silos e raffinerie hanno ucciso gli alberi. Si è trovato il petrolio, sono state costruite isole artificiali e ci sono 140000 abitanti”.

Ma al netto di tutte le letture in chiave ecologica da cui la sensibilità di uno spettatore contemporaneo potrebbe essere colpita, con tutto il triste corredo di liquami, detriti, fumi velenosi e scarichi a mare, lo sguardo di Antonioni sul progresso che ridisegna e ridefinisce il paesaggio ravennate, non è severo, anzi. Egli dice a tal proposito: “Nella campagna intorno a Ravenna, l’orizzonte è dominato da fabbriche, ciminiere e raffinerie. La bellezza di queste è di gran lunga più affascinante di quegli anonimi filari di pini che vedi da lontano, tutti uguali, dello stesso colore”. Egli vedeva nell’impatto devastante dell’industria sull’ecosistema una bellezza perversamente distruttiva ma decisamente palingenetica e il colore doveva suscitare emozioni contrastanti assimilabili all’idea del sublime burkiano.

Uomo, natura e alienazione ne Il deserto rosso
L’uso del colore ne Il deserto rosso, non vuole solo sottolineare le ‘qualità iridescenti’ del paesaggio industriale, ma anche un distacco disorientante rispetto alla natura. E questo distacco è rappresentato anche nel modo in cui l’ambiente industriale ha impattato le tradizioni. Il casotto sul mare, luogo sacro di socialità e folklore, diventa oggetto di iconoclastia, quando il freddo dei sentimenti e il vuoto esistenziale che circondano la nuova borghesia industriale diventa tangibile. L’amore è artificioso, i discorsi sono superficiali, l’eros è squallido, alcolico… triste. In un perfetto gioco di simmetrie, Giuliana e Emilia (amica di Corrado, amante insidiata da un vecchio industriale lì presente con la moglie) occupano e si spostano come in una danza, su angoli opposti del casotto in un gioco di rispecchiamento che preconizza gli eventi che incombono sulla sempre più spaesata Giuliana.

In un’altra scena, Giuliana, Ugo e Corrado – alter ego della protagonista – camminano lungo un canale nei dintorni di Ravenna. Scarti industriali che avvelenano corsi d’acqua, luoghi prima pescosi, oggi sinistri e spettrali, anguille che sanno di petrolio e nessun uccello a cinguettare tra gli alberi, sembrano rappresentare lo scotto da pagare, con rassegnazione, perché la trasformazione da un’Italia preindustriale a un’Italia industriale abbia luogo definitivamente. Il carico di orrore e putredine che questo scotto porta con sé si spiega in una bandiera gialla che annuncia la malattia infettiva sulla nave attraccata vicino al casotto, ma ancor di più nell’acutezza percettiva di Giuliana dopo il suo incidente, avvenuto prima degli eventi narrati nel film.
Giuliana e quelli che non si adattano al cambiamento: centro focale e tematico de Il deserto rosso
“È rimasta scioccata”, racconta il marito per giustificare i comportamenti bizzarri della moglie.

In realtà l’incidente è stato un tentativo di suicidio e l’abbraccio spezzato con la morte le ha donato una più forte percezione delle caratteristiche estetiche di ciò che la circonda: “Cosa la gente si aspetta che io faccia con i miei occhi? Che cosa dovrei guardare?”. Nel focalizzarsi sullo stato alterato di Giuliana, sembra quasi che Antonioni abbia schierato il tòpos romantico classico della malattia e della sofferenza come mezzi per giungere a stati superiori di visione creativa. ”Non ci sono due persone che vedono le cose nello stesso modo”, nota Antonioni, “e ciò che vedi dipende dallo stato mentale”. Ciò che stimola la sua riflessione, quindi, è ancora una volta la reazione dell’individuo di fronte ai cambiamenti. Il nuovo orizzonte definito dall’architettura industriale si oppone alla dimensione femminile della società. È nella sua dimensione di Madre Natura, di perpetuatrice della specie, che Giuliana si sente prosciugata e secca. Agìta dagli uomini della sua vita (Ugo, Corrado, il figlio), Giuliana perde la centralità nel processo della creazione. E questo la devasta e la estranea dalla sua stessa creatura.

La trasformazione industriale del paesaggio, così violenta e ‘maschia’, quindi, segna la psiche di coloro che con più difficoltà si adattano a tali cambiamenti. Si verifica quasi un fenomeno di selezione naturale: sopravvive chi riesce a stare al passo con il progresso; gli altri scompaiono inghiottiti dalle loro crisi. Perché il progresso è inesorabile, come le rivoluzioni. Ma Antonioni non sembra interessato a raccontare gli ‘attori’ o i processi delle rivoluzioni, della lotta di classe, pur assai rilevante nella trasformazione epocale della società. Piuttosto studia e pone attenzione agli esiti, alle reazioni estreme.

Chi non ‘resiste’ cerca una via di fuga: nel caso di Corrado, la Patagonia, una fuga reale; nel caso di Giuliana, la fuga è dalla vita stessa, sotto forma di un tentato suicidio o sotto forma di visione. A tal proposito, non si può non fare un riferimento al racconto di Giuliana della ragazzina e la ‘sua’ spiaggia (assolutamente strepitosa la spiaggia rosa di Budelli), ritorno a uno stadio pre-sociale dell’evoluzione umana in cui la natura si identifica con l’individuo, in cui le onde che si infrangono dolcemente sulla spiaggia respirano all’unisono con l’anima del mondo, piangendo un’armonia col Creato che l’umanità ha perso. E di questo la protagonista del film è disperatamente conscia anche quando, in un ulteriore processo di associazione, la sua mente colora di del rosa dell’illusione la stanza dove fa l’amore con Corrado.

Conclusioni
Il deserto rosso è dunque un viaggio mentale nelle sofferenze e nella psiche di Giuliana, nevrotica e depressa, ignorata dal marito pragmatico, adattatosi perfettamente al progresso industriale e ‘giocata’ anche dal figlioletto, freddo come il robot che si muove avanti e indietro sbattendo contro le pareti della sua stanza e insincero come un futuro manager tecnocrate deve essere. Ma dove vive Giuliana, che ha momenti di angoscia profonda, come quando dice di aver sognato il letto coniugale che sprofondava nelle sabbie mobili (ricordando in qualche modo la Anna del Possession di Zulawski)? Vive negli interstizi del suo tempo interiore, fumosi, indistinti e fantasmatici nei quali la vita reale si svolge mentre quella interiore, per quanto dissonante, incoerente e nevrotica, allarga i suoi sconfinati e possibili orizzonti.

Tutte le persone che incontra, i luoghi che frequenta sembrano recuperati all’oblio. C’è sempre qualcuno o qualcosa nella nebbia, nel fumo, come se fossero ricordi che si giustappongono nella sua mente. L’essenzialità del linguaggio e della sceneggiatura (a cura di Antonioni stesso e Tonino Guerra) libera la trama da ogni convenzione drammatica. Non c’è niente di ‘compiuto’ o ‘risolto’ nella vita di Giuliana: vuole aprire un negozio non si sa di che o di che colore voglia dipingerne le pareti; o ancora perché abbia scelto quel posto così abbandonato, inviso al marito e che ricorda tanto i corridoi grigi della sua mente. Non sappiamo se Corrado, possibilità abortita, amante di una notte, nevrotico in fuga anch’egli, sia reale o una produzione della sua mente. Come Septimus Warren Smith, alter ego di Clarissa Dalloway nel capolavoro di Virginia Woolf, Corrado esce di scena, sparisce dalla vita della protagonista: lì c’era un suicidio, qui una porta che si chiude. D’altronde, quando Giuliana dice, “C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice. E neanche tu mi hai aiutata, Corrado”, è come se prendesse coscienza del fatto che dovrà farcela da sola, e da sola sceglie di vivere. Come Clarissa. Di certo alla fine del film, Giuliana è lì, sopravvissuta a una giornata interminabile, nel cappotto verde brillante con il suo bambino per mano, che gli spiega come gli uccelli abbiano imparato a sfuggire ai fumi velenosi delle ciminiere e a sopravvivere. Anche loro. Come lei.

Scheda Film
Il Deserto Rosso (1964), durata: 117 min.
Regia: Michelangelo Antonioni.
Interpreti:
Monica Vitti (Giuliana)
Carlo Chionetti (Ugo)
Richard Harris (Corrado)
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra
Produttore: Tonino Cervi, Angelo Rizzoli
Fotografia: Carlo Di Palma
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Giovanni e Cecilia Fusco, Carlo Savina, Vittorio Gelmetti
Scenografia: Piero Poletto
Costumi: Gitt Magrini
Una recensione in cui mi sono ritrovato, anche perché lo scorso anno, si sti tempi l’avevo rivisto, scrivendone pensieri associati nel blog, arrivando quasi alla stessa conclusione. La solitudine che si amplifica a causa della fabbrica.
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Grazie, Fritz. Leggerò la tua con grande interesse. Grazie davvero
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Grazie. Per me resta, a dispetto di quello che molta critica ha espresso nei confronti di questo film (non sempre positiva) il migliore e più coinvolgente film di Antonioni. Sicuramente in questa mia scelta vi è qualcosa di autobiografico, ma lo trovo superiore per chiarezza del messaggio a Zabrieskie Point e Professone Reporter. Un misto di realismo e surrealismo ben dosato, tanto da apparire come incubo, sogno, vita reale.
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Sto lavorando a Blow up, film superbo che però sento meno mio rispetto alla prima fase della produzione del Maestro.
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Roberta, mi fai tornare in mente tanti ricordi belli. Del Maestro, il mio film preferito, se non fossi un ingegnere, direi da Fritz Gemini, sarebbe La Notte… secondo me e’ supera per distacco “La dolce vita”.. (forse te l’avevo gia’ scritto). Sono curioso di sapere il tuo preferito (primo periodo e in generale). Blow up, mi piacque a tratti… ammetto che tra i suoi film, forse e’ quello che mi piacque meno, ma comunque resta un film affascinante.
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Fritz, che dire? La Notte è il più compiuto, un capolavoro, forse IL capolavoro. Eppure L’Avventura, con le sue piccole imperfezioni, come una scultura ancora da finire… mi emoziona tantissimo e Deserto Rosso… beh, Giuliana sono io. Comunque Antonioni è strepitoso, un artista completo e unico
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Si, e’ un regista che “nuota” e ti trasporta nel mondo delle emozioni. Se fosse un segno zodiacale, sarebbe un segno di acqua: molto probabilmente sarebbe un Pesci, con ascendente Scorpione. Io mi sono rivisto in alcune cose di Giuliana, soprattutto negli ultimi anni, prima nei due ingegneri. Condivido ogni parola di quello che hai detto per La Notte e per L’avventura.
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Per Blow up… sto studiando tanto. Vediamo cosa ne esce
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Dimenticavo: Aspetto la tua recensione a Blow up!
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Bellissima analisi, l’ho citata all’interno del libro che sto scrivendo su Antonioni. Ringrazio di cuore l’autrice per questo articolo davvero illuminante.
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Sono commossa. Grazie, Doris. È una gioia è un onore condividere cose belle. Ora più che mai.
Roberta
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