Il giocattolo, di Giuliano Montaldo (1979)

di Bruno Ciccaglione

Ispirato dalla tragica vicenda del calciatore della Lazio Re Cecconi, ucciso da un gioielliere suo amico per aver simulato una rapina con uno scherzo, Il giocattolo di Giuliano Montaldo è un film sulla forza incontenibile della paura: una paura che nell’animo del protagonista – uno straordinario Nino Manfredi – si gonfia in una specie di delirio di onnipotenza, grazie ad un “giocattolo” che dà il potere di togliere la vita: una pistola.

Ma si tratta anche di un film su un uomo che è stato sfruttato tutta la vita senza ritegno, che si è illuso di avere un amico nel cinico capitalista per cui ha fatto di tutto, che vive in un modesto appartamento piccolo borghese sempre buio, in un matrimonio che non può dirsi felice. Quella della pistola sarà l’illusione più assurda e più gravida di conseguenze terribili: il riscatto o la rivalsa che alla fine in qualche modo cerca, gli saranno negati nel modo più inaspettato.

Il giocattolo è un film spesso dimenticato, sia nella carriera del suo autore (ricordato soprattutto per Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire), sia nella carriera di Manfredi. Le ragioni di questa riluttanza a celebrare questo film, stanno forse nel fatto che Montaldo qui costruisce un personaggio che vive una esperienza angosciante e complessa, che pur con momenti da commedia, attraversa una vicenda di una amarezza costante. D’altra parte Montaldo non era nuovo ad affrontare con coraggio temi e storie complesse, fuori dagli schemi di un cinema militante di cui pure è stato esponente, si pensi all’esordio di Tiro al piccione, che aveva come protagonista un giovane repubblichino. Manfredi poi era amato dal pubblico soprattutto per i suoi ruoli e personaggi comici, mentre qui tocca una delle vette drammatiche più alte della sua carriera.

A dispetto di questi elementi che forse hanno concorso a limitare l’attenzione su questo film, il tema e l’approccio sono assolutamente attuali, vista la tendenza crescente ad armarsi che sembra rafforzarsi negli ultimi anni, tanto che nel dibattito pubblico oggi si giunge a ridiscutere i contorni giuridici della legittima difesa. Un paradosso, se si pensa che il livello di violenza della società di oggi è molto inferiore a quello dell’epoca messa in scena dal film, la fine degli anni ’70, in cui davvero per le strade si sparava moltissimo e le rapine erano all’ordine del giorno. Forza della paura: che sia fondata su una realtà, come allora, o sulla falsa percezione di essa, come oggi, essa è una delle protagoniste del film.

Se Vittorio Barletta (Manfredi) si arma, infatti, è innanzitutto per paura. Lo spirito da giustiziere non riguarda il suo personaggio. La definizione della propria identità non passa attraverso un delirante e sbilenco tentativo di salvare una giovane prostituta dalla strada come accade in Taxi Driver. Ma come Travis/De Niro, anche Vittorio/Manfredi è un “nessuno che cerca disperatamente di diventare qualcuno”. Barletta è un piccolo borghese, un colletto bianco che tiene la contabilità (magari a nero) per una azienda di medie dimensioni, uomo di fiducia e braccio destro del padrone dell’azienda (Arnoldo Foà), pienamente integrato nel sistema. Eppure, in qualche modo, o proprio per questo, completamente incasellato, ben poco realizzato, si sente incompreso e sottovalutato.

Se la prima volta che va al poligono ha la sensazione di entrare in un club “di prim’ordine”, di cui fanno parte il parlamentare, il grande chirurgo, il gioielliere, tutti ossessionati dalla febbre della propria sicurezza personale, nel corso del film dovrà amaramente rendersi conto che da quel mondo può ricevere solo umiliazioni. Ferito casualmente in un supermercato durante una rapina, decide di comprare una pistola. Alla passione per le armi si dedicherà con le maniacali precisione e dedizione che fino ad allora aveva dedicato alla sua collezione di orologi.

È proprio la riflessione sul che cosa significhi davvero comprare una pistola, il cuore del film. È il nuovo amico di Barletta, un poliziotto dalla densa umanità (Sauro, un grandissimo Vittorio Mezzogiorno), che gli spiega le implicazioni del girare armati: prima o poi un cristiano lo puoi pure uccidere. “Ma non è quando spari che lo ammazzi”, ammonisce Sauro, “Quel cristiano, chiunque sia, è già morto nel momento stesso che tu hai deciso di girare armato, mi spiego?”. Eppure sarà proprio Sauro a regalare a Vittorio Barletta la sua pistola. I due personaggi sono i due grandi illusi del film, che si riconoscono costruendo un legame di amicizia di grande dolcezza, ma che la dura realtà si incaricherà di stroncare.

Vittorio Mezzogiorno

L’atmosfera del film, nonostante alcune scene assolutamente divertenti, è di una crescente angoscia. Barletta/Manfredi, anche a seguito delle vicende tragiche in cui è coinvolto, vedrà la propria paura trasformarsi in mania, comincerà a sfidare apertamente le minacce vere o presunte che si trova di fronte, si inebrierà sempre di più di quella forma di potere che sente fra le mani quando impugna l’arma. Diventerà un uomo in guerra contro tutti, perfino capace di usare cinicamente la propria immagine di innocuo piccolo borghese per combattere più efficacemente la sua guerra: forse si sente tanto più “uomo” quanto più cresce la sua abilità con la pistola. Se prima era un grigio funzionario al servizio di un padrone milionario e della sua figlia ribelle (il solito straordinario Arnoldo Foà e una brillante Pamela Villoresi, che si scontrano continuamente, ma che sono due facce della stessa feroce razza padrona), con una pistola in tasca comincia a vedere il mondo con uno sguardo diverso.

Pamela Villoresi, Nino Manfredi, Arnoldo Foà

Prodotto da Sergio Leone (numerosi i tributi di Montaldo, nei dialoghi tra Vittorio e Sauro, che si raccontano le scene di culto dei suoi western), il film viene da un’idea dello sceneggiatore Sergio Donati. Gli attori sono tutti straordinari e offrono prove da incorniciare. Montaldo ha raccontato che nel mondo del cinema romano in molti lo avessero avvertito: “con Manfredi litigherete dall’inizio alla fine!”. Era questa la nomea dell’attore ciociaro: un carattere difficile. E invece poi era successo che ogni sera fosse una festa insieme. A rendere possibile questa atmosfera bellissima fu probabilmente la scelta di Montaldo di fare una cosa piuttosto insolita nel cinema dell’epoca: due settimane di prove con gli attori, scena per scena, prima della lavorazione sul set. Addirittura ci furono casi, racconta ancora il regista, in cui con alcuni attori si convenne che non ci fosse la giusta sintonia e quindi si procedette alla loro sostituzione. D’altra parte Montaldo stesso era un attore, che da regista ha diretto – e sempre con polso – molti grandissimi e a volte difficili attori (da Cassavetes a Volonté).

Olga Karlatos e Nino Manfredi

Fu la sua particolare attenzione e il rispetto per il lavoro degli attori, in un film che richiedeva un lavoro fatto di sfumature, un tocco delicato e una certa profondità nei diversi personaggi, a offrire a Manfredi il clima ideale per una interpretazione magistrale. Una sintonia particolare, sin dalle prove, si realizzò – ed è tutta splendidamente catturata nel film – tra Manfredi e Vittorio Mezzogiorno, un attore così amato da chiunque apprezzi il cinema e il teatro, che Montaldo ancora oggi quando ne parla si commuove per la sua prematura scomparsa. Straordinarie anche le interpretazioni di Arnoldo Foà e di Pamela Villoresi, che mettono in scena il perfetto conflitto padre figlia all’interno di un’alta borghesia industriale cinica e potente.

Marlène Jobert è Ada, la moglie di Vittorio Barletta

Un discorso a parte merita il personaggio di Ada Barletta, la moglie di Vittorio, di cui scopriamo gradualmente la grave malattia, interpretato in modo davvero toccante da Marlène Jobert. Col procedere del film questa moglie che – sola – conosce la sensibilità e l’orgoglio del marito, che intuisce il crescere di qualcosa di spaventoso dentro di lui, assume sempre più dei caratteri materni. I suoi tentativi di proteggere Barretta, la sua paura – ancora lei, la paura – la spingerà verso un esito tragico, in qualche modo privando Vittorio di un qualche tipo di rivalsa verso chi lo ha umiliato per una vita.

Lo sfogo rabbioso di Vittorio nel finale: “Li voglio fare a pezzi!”

Il giocattolo è in fondo un film sul potere di un oggetto, una pistola, di modificare il modo di pensare e di relazionarci con il mondo, non appena ne avvertiamo la presenza. E nel cinema questo è ancora più vero. Come diceva John Ford, una volta che la pistola è stata mostrata allo spettatore, anche solo per pochi istanti, poi bisogna che “canti”, insomma è ineluttabile che spari: al di la delle intenzioni che si hanno, come dice Sauro, una pistola “serve ad ammazzare”.

Il film è disponibile su Youtube

2 risposte a "Il giocattolo, di Giuliano Montaldo (1979)"

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