Il grande spirito, di Sergio Rubini (2019)

di Andrea Lilli –

Sergio Rubini è un talento naturale, un fuoriclasse che ogni tanto si sveglia e ricorda di esserlo, e allora se ne esce con film preziosi, di quelli imprevedibili e scomodi da catalogare. Ma un Rubini coraggioso e disinvolto come ne Il grande spirito (2019) non si era visto dai tempi de La stazione (1990), suo primo folgorante gioiello da regista-protagonista. In questo caper movie in salsa tarantina veste gli stracci di Tonino, soprannominato Barboncino a causa di un ridicolo quanto fatale inciampo nella carriera criminale, piccolo e maldestro malvivente che vediamo tentare di cogliere l’occasione per riscattarsi dalle umiliazioni del passato e trasformarsi in grande ladro. Incontrerà invece il Grande Spirito. Dovrebbe solo fare il palo durante una rapina, ma il piano non va come previsto e nel momento in cui il bottino sfugge al controllo dei compari Tonino fiuta il colpo grosso: afferra il borsone e, inseguito, fugge in verticale scavalcando balconi e terrazze come nemmeno Daniel Craig/James Bond in moto fra i tetti di Istanbul (Skyfall, 2012).

Il film prende quota lassù, in cima alle vecchie case di un quartiere popolare di Taranto non lontano dalle acciaierie dell’Ilva. Tonino viene assediato da un plotone di malavitosi appartenenti alla cosca del Pescatore, inviperiti da tanto ardire dell’insignificante ‘Barboncino’. Lo circondano, ormai stanno per raggiungerlo, ma all’ultimo momento viene tratto in salvo da Renato (Rocco Papaleo), eccentrico eremita che da anni vive in un ex lavatoio senza mai scendere a terra. Variante schizoide di barone rampante urbano, Renato crede di essere un indiano Sioux: il suo nome è Cervo Nero, i suoi nemici sono gli yankee che – là dove erano praterie e bisonti pugliesi – hanno costruito il mostruoso impianto siderurgico, le ciminiere che avvelenano tutti, che hanno ucciso suo padre operaio, solo per accumulare denaro. Ha come divisa una fascia rossa sulla fronte e una piuma dietro l’orecchio, arco, frecce e una mazzetta da muratore per tomahawk. La legge morale interna è quella Sioux, solo il cielo è sopra di lui. Cervo Nero salva Tonino perché nella sua logica pensa sia un fratello, nemico dei malvagi e avidi yankee, anzi: crede che sia proprio lui l’uomo del destino preannunciatogli da Manitù, il Grande Spirito.

Tonino strabuzza gli occhi, corruga la fronte, ringrazia Cervo Nero e tenta di scappare anche da lui, ma senza riuscirci, per sua fortuna, perché solo la bontà d’animo e l’esperienza in superattici del folle Renato potranno salvarlo: da una brutta caduta, dalla vendetta dei ceffi che rivogliono il tesoro della rapina, dall’estrema disperazione, dalla definitiva perdita del malloppo, andato sepolto in un cantiere sotto una camionata di breccia. Del resto Tonino si renderà conto di non poter contare su nessun altro, tantomeno sull’ex amante Milena (Bianca Guaccero), men che mai sul figlio: si rassegna ad affidare il proprio destino all’uomo che lo chiama Uomo del destino. Capirà che non tutti gli squilibrati vengono per nuocere, anzi: spesso dimostrano di essere assai più innocui, saggi e generosi dei cosiddetti normali. Talvolta sanno anche sacrificarsi per gli altri. Riuscirà a ricambiarne i favori, salvando Renato da un parente meschino che vorrebbe trasferirlo altrove, malgrado Cervo Nero sia riuscito a crearsi in qualche modo una dimensione di vita libera. Stesso scambio di cortesie avverrà tra Tonino e la donna di pulizie Teresa (Ivana Lotito), madre di famiglia maltrattata da un marito violento e pappone. Teresa è la migliore amica di Cervo Nero, che sogna di portarsela in Canada, patria dei Sioux.

Storia tanto inverosimile quanto credibile, grazie ad una scrittura (a tre mani: Carla Cavalluzzi, Angelo Pasquini e lo stesso Rubini) che cura attentamente i dialoghi pur lasciando spazio alle improvvisazioni, e grazie alla bravura dei due protagonisti nel calarsi in panni difficili. Film ricco di azione e di ironia, costellato di spunti riflessivi, intelligente nell’accennare in modo equilibrato a temi drammatici come la gigantesca questione ambientale ancora irrisolta dell’Ilva, la gestione del disagio mentale, la violenza casalinga sulle donne in ambito familiare. Coraggioso e vincente il connubio tra il vernacolo pugliese e il lirismo delicato del commento musicale, affidato a Ludovico Einaudi. Adeguata la fotografia di Michele D’Attanasio, che carica la tensione narrativa di toni scuri e colori netti. Il grande spirito, insomma, un anno dopo l’intensa prova ne Il bene mio (Mezzapesa, 2018), conferma Rubini come artista originale e innovativo, quando vuole estraneo ai soliti canoni opportunistici del cinema italiano. Un attore-autore straordinario da cui possiamo aspettarci di tutto, anche prove mediocri e compromessi in un mercato sempre più asfissiante, ma che dà il meglio di sé quando gioca in casa e dirige se stesso in un percorso di ricerca che non ha mai abbandonato: lo dimostrano tappe come Tutto l’amore che c’è (2000), La terra (2006) e L’uomo nero (2009), dopo l’esordio autobiografico di trent’anni fa, La stazione.

Cervo Nero parla. «Lo sai cosa ha detto Toro Seduto agli yankee? Quando i fiumi saranno asciutti, e gli animali estinti, capirete che non si può mangiare il denaro.»

Rocco Papaleo: Premio Flaiano 2019 per l’interpretazione di Cervo Nero

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