L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, di Jay Roach (2015)

di Simone Lorenzati

“Gli unici che rispondono ad una domanda con un si’ o un no, sono solamente gli schiavi o gli stupidi”.
Dalton Trumbo

La Black List rappresenta una delle pagine più controverse nella storia di Hollywood. E L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, film di Jay Roach del 2015, la fa emergere in tutta la sua drammaticità. Siamo nell’immediato dopoguerra, e l’alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, in funzione anti-hitleriana, è ormai un lontano ricordo. Cominciano le prime tensioni per la supremazia planetaria, i primi vaneggiamenti, i primi scontri. Tuttavia in America non mancano militanti – o anche semplici aderenti – al Partito Comunista, il che rappresenta un problema: da un certo momento in poi dirsi anche solo simpatizzanti comunista equivale ad essere visti come dei traditori.

In questa finestra storica s’inserisce la vicenda di Dalton Trumbo, sceneggiatore decisamente rinomato nel mondo cinematografico di allora. La sua immagine, mentre scrive a macchina nella vasca da bagno e lavora alle sue sceneggiature, è, a ben vedere, un’immagine assolutamente ambivalente: un’icona sospesa tra l’entusiasmo della propria integrità idealista, possibile ormai solamente tra le proprie mura domestiche, e il peso di una Storia pronta a smorzarne passione e creatività.

E dire che ci fu un momento in cui divenne lo sceneggiatore più pagato di tutti quanti, nominato all’Oscar, conteso da molti, davvero dai più grandi. Ma poi, appunto, la Lista Nera: un comitato a tutela della nazione contro i suoi nemici e l’inizio della Guerra fredda: “via i comunisti dal nostro Paese”, è il mantra più o meno esplicito. E prima ancora che dagli Usa, via da quei centri attraverso cui è più facile diffondere l’infezione rossa: visto che il cinema è il medium più potente di tutti, via quindi i comunisti da Hollywood.

Inutile appellarsi al primo emendamento, ripetere che dirsi comunista non equivale a essere filorussi, che l’amor patrio può convivere e via discorrendo: la frenesia è dilagante e la storia, prima ancora che il governo, bussa alla porta dei dieci. Sono i “Dieci di Hollywood”, torchiati dal Congresso, svenduti da persone con cui il giorno prima condividevano la tavola. È così che Trumbo finisce in carcere.

L’approccio del regista Jay Roach alla vicenda tenta di soffermarsi sul Trumbo (Bryan Cranston) uomo, dunque anzitutto marito e padre. Tuttavia la posizione del regista è esplicita ed i persecutori di Trumbo vengono dipinti come degli invasati patriottici, che siano marionette (John Wayne) o promotori (Hedda Hopper). Invasati a dispetto del contegno di facciata, ineludibile considerata la società dell’epoca, ma senza dubbio personaggi negativi, come il primo accusatore, successivamente condannato per evasione fiscale, o la perfida Hopper (Helen Mirren), che assume su di sé il ruolo di primo inquisitore.

Diverso è, invece, il trattamento riservato ai delatori, verso cui Trumbo evidentemente non coltivava disprezzo, cercando di comprendere le difficoltà di un periodo come quello. Ottimo Bryan Cranston nei panni di Trumbo, capace di immedesimarsi al meglio nel personaggio e in grado di mischiare dramma ad ironia. Roach lavora sulla singola scena, ma soprattutto sui dialoghi, da cui passa il senso della vicenda, tra una frase ad effetto e un botta e risposta arguto. Bene anche il cast “di contorno”: su tutti John Goodman, il cui King fatto da un altro non riesci nemmeno a immaginartelo, così come il surreale ingresso di Otto Preminger. E non va affatto sottovalutato il ruolo della moglie Cleo (Diane Lane), che per certi versi è l’ago della bilancia, l’elemento senza il quale probabilmente questa storia non esisterebbe nemmeno.

L’ultima parola. La vera storia di Dalton Trumbo ci informa dunque di una Hollywood che fu. E di come, senza rinnegare le proprie convinzioni e i propri ideali, Trumbo sia infine riuscito a riconquistare il lavoro e i premi da questo derivatigli potendo, nuovamente, abbandonare gli pseudonimi a cui per anni dovette ricorrere. E dunque, in definitiva, il messaggio di Roach pare davvero essere semplicemente uno: non accada mai più.

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