di Girolamo Di Noto

Molti considerano Satyajit Ray – nato in una famiglia di origine bengalese con forti tradizioni artistico-letterarie – il più grande regista del Terzo Mondo e uno dei grandi della storia del cinema. Artista poliedrico, avviato alla pittura, musicista, sceneggiatore, spesso direttore della fotografia dei suoi film, colto e curioso della cultura occidentale, è stato grande conoscitore del cinema europeo.
Aveva avuto la fortuna di poter seguire come aiuto regista la lavorazione del Fiume di Jean Renoir, i suoi interessi cinematografici si concentrarono soprattutto su Ford, Dovženko e sul neorealismo italiano, in particolare Ladri di biciclette di De Sica. Nelle intenzioni del regista vi era la volontà di muovere una seria critica verso lo spettacolo esagerato e sganciato dalla realtà del cinema indiano contemporaneo. Concentrandosi sui bisogni primari della fame e della centralità della famiglia e della solitudine, Ray matura l’idea di portare sullo schermo cinematografico, nel decennio degli anni Cinquanta, le vicende di una povera famiglia bengalese d’inizio secolo schiacciata dalle difficoltà economiche, vista attraverso gli occhi di Apu, ultimo nato.

Il lamento sul sentiero è il primo capitolo della celeberrima trilogia completata da Aparajito e Il mondo di Apu. Raccontando rispettivamente l’infanzia, l’adolescenza e la maturità di questo personaggio, le tre parti della trilogia sono ricordate tra i classici della storia del cinema per la profonda umanità, l’intensità poetica e la bellezza formale.

Il lamento sul sentiero è un poema sull’infanzia perduta: attraverso gli occhi di Apu passano tutti gli eventi principali del film, attraverso il suo sguardo si accumulano significanti attimi che rivelano i sentimenti profondi dei personaggi. In una sequenza bellissima di questo primo episodio, Apu e la sorella Durga vengono colti di sorpresa dall’azione di un monsone: mentre Apu si rifugia sotto un albero, la sorella danza roteando tutta eccitata lasciando che la pioggia le inondi il giovane corpo. Questa scena è di fondamentale importanza perché riesce non solo ad esprimere l’innata esuberanza fanciullesca di Durga e la sua forte nascente sensualità, ma anche perché è rivoluzionaria rispetto ai film indiani precedenti. Quasi tutti i film indiani erano infarciti di canzoni e sequenze di danza e anche i più cupi thriller non potevano fare a meno dei numeri musicali inseriti soprattutto per intrattenere un pubblico povero e analfabeta. La danza di Durga poteva dare certo l’occasione per inserire una sequenza cantata, ma Ray rinuncia soffermandosi invece sugli aspetti essenziali della vita, sulla realtà della miseria e della morte e sul rapporto con la natura, che è al tempo stesso vista come paradiso e dolore in una globalità – come scrisse Lourcelles- “in cui la morte e la vita, l’individuo e il cosmo non possono e non devono venir distinti”.

Ray riporta momenti di privazioni e rinunce, ma anche momenti di amore e solidarietà. La povertà impedisce di andare lontano ma non di sognare: se è vero che quando vicino alla loro casa passa l’uomo dei dolci e i due fratelli seguono il suo richiamo fino alle case dei più ricchi, dove tutti tranne loro si ingozzano, è anche vero che quando guardano passare i treni non possono fare a meno di sognare una vita fuori dal villaggio.

Aparajito narra gli studi di Apu a Calcutta. Il personaggio cresce, affronta gli anni dell’adolescenza, frequenta l’Università grazie ai sacrifici della madre rimasta vedova. Premiato con il Leone d’oro a Venezia, il film segna la consacrazione internazionale di Ray. Al centro del racconto c’è l’educazione e la conseguente introduzione alla vita di Apu. C’è soprattutto la descrizione del rapporto intensissimo del giovane con la madre e la sofferenza di quest’ultima che non riuscirà mai a far capire al figlio il dolore per la sua lontananza. Ray è straordinario nel dare grande rilievo al paesaggio – splendide le vedute del Gange – e a dedicare estrema cura sui piccoli e fondamentali gesti quotidiani come la preparazione del cibo e del tè all’interno delle mura domestiche.

Raggiunge però un’intensità ancora più strabiliante in una sequenza toccante: quella che vede protagonista la madre che, in preda al delirio provocato dall’azione devastante della malattia che ormai l’ha condannata alla morte, assiste alla danza di un drappello di lucciole sulla riva di un piccolo, tetro bacino d’acqua. Danza e morte, meraviglia e paura: Ray concentra in questo affresco partecipe dell’India degli anni Venti tutta la profondissima verità dello stato d’animo di una persona, la propria profonda vita interiore.

A chiudere la trilogia è Il mondo di Apu che narra la giovinezza dell’eroe, afflitta dal bisogno e dalla morte per parto della giovane consorte. Folle per il dolore, sceglie di abbandonare il figlio appena nato e di sparire lontano. Cinque anni dopo, operaio in una fabbrica, si mette alla ricerca del figlio mai visto.

Con uno stile semplice e senza ornamenti, Ray chiude la sua trilogia mettendo in atto un ritratto profondo di questo personaggio che solo attraverso un doloroso peregrinare per l’India potrà capire le leggi dell’esistenza, l’importanza degli affetti, potrà comprendere che la vita è scuola a se stessa.

Cinema fatto con pochissimi mezzi, di straordinaria vitalità e di una felicità creativa unica: nessuno come Ray ha saputo offrirci un ritratto appassionante, complesso dell’India e il centenario della sua nascita – era nato il 2 maggio 1921- diventa così l’occasione giusta per ricordare e riscoprire un regista che ha lasciato un segno profondo nella storia del cinema collocandosi giustamente nel Pantheon dei cineasti illuminati della settima arte.
