Il Divin Codino, di Letizia Lamartire (2021)

di Antonio Sofia

Il Divin Codino di Letizia Lamartire, uscito su Netflix in questi giorni, è un prodotto con cui è difficile empatizzare. Rispetto al genere dei film sportivi risulta eccentrico, indubbiamente per un’impostazione anticlimatica nella sceneggiatura, nella recitazione e nella regia.
Si tratta ovviamente del biopic dedicato a Roberto Baggio, grande artista del pallone nostrano (interpretato in modo convincente da Andrea Arcangeli): Divin Codino è il soprannome che rende con efficacia la frivolezza e il misticismo della sua maschera pubblica.
La vicenda di Baggio si snocciola in tre atti: gli esordi, il Mondiale del 1994 e il Mondiale del 2002.

Nel primo atto il film si sofferma sul conflitto limiti vs. ambizioni: il giovane talento deve emergere dalla provincia veneta, sesto di otto figli, si scontra con la dura indifferenza del padre e, nel momento di spiccare il volo, subisce un grave infortunio. La risoluzione è quella della scelta buddista, che ritornerà con varie didascalie a interpretare l’evoluzione degli eventi.

Si salta al 1994, Mondiali americani: Baggio contro Sacchi, Baggio con Sacchi. L’estro individuale vs. la social catena. Quella Nazionale poco amata e disperante, in cui gli italiani non si riconobbero mai – probabilmente perché sconfitta e il nostro Paese ama davvero soltanto i vincitori. Baggio si darà il tormento per il determinante errore dal dischetto contro il Brasile: ha deluso se stesso e, si intende dalla ricostruzione, tradito la promessa di vendicare la sconfitta del ’70, fatta a suo padre quando aveva appena tre anni. Ciò nonostante, quel rigore non ebbe un gran peso sul rapporto tra Baggio e il pubblico, anzi: molti festeggiarono la destituzione del cambiamento rivoluzionario di Sacchi, un gioco in cui l’organizzazione e la cooperazione fossero più determinanti del singolo, un cambiamento al contempo paradossale, perché imposto dall’ennesimo uomo solo al comando, figura ricorrente del nostro folklore grottesco.

Terzo atto: Baggio è a fine carriera, stenta a trovare una squadra che gli permetta di guadagnarsi la convocazione per il Mondiale di Corea. Trova il sostegno devoto di Carlo Mazzone, allenatore del Brescia, mentre il c.t. Trapattoni gli promette di chiamarlo se in condizione di giocare. È in scena il conflitto dell’uomo vs. il tempo: un infortunio grave, il recupero impossibile, il tradimento del Trap che punta sui talenti emergenti del calcio italiano, quelli che vinceranno poi il titolo nel 2006. Baggio deve rassegnarsi a vivere felice lontano dal calcio, come non mancherà mai di ribadire da allora. Il rapporto con suo padre troverà finalmente un compimento, a chiudere il cerchio della sceneggiatura e il film su un’orribile canzone di Diodato.

Il film di Letizia Lamartire è privo della tensione epica, a volte pregna di retorica, tipica dei biopic dedicati a un campione: non c’è reale partecipazione alla parabola sportiva di Baggio, mentre ci si sofferma su come abbia saputo reagire alle difficoltà, avanzando l’ipotesi che la tensione col padre (l’ottimo Andrea Pennacchi) abbia potuto in un certo senso sorreggerlo e stimolarlo nelle crisi, almeno quanto il buddismo. Il tentativo di scavare oltre la maglia del calciatore è parzialmente riuscito: per una quantità enorme di ellissi su passaggi non secondari e noti comunque al grande pubblico, una storia assai popolare in larga parte rimossa, dando priorità agli eventi con l’ecumenica maglia azzurra. Questa scelta, tuttavia, restituisce un ulteriore tratto del Divin Codino: mai davvero in sintonia con le tifoserie e gli spogliatoi, piuttosto focalizzato su se stesso e sul suo confronto con la Storia.

Potrebbe essere un buon film da vedere insieme a chi ha aspirazione di realizzarsi nel calcio in giovane età: non ne guadagnerà entusiasmo forse, ma qualcosa gli lascerà, un po’ di malinconia, una visione meno parziale. Magari prima o dopo aver recuperato qualche video dedicato alle imprese calcistiche di Baggio sul campo di gioco. Non mancano.


In fondo, Il Divin Codino è un lavoro egregio. Credo sia stata reso piuttosto bene l’individualismo di Roberto Baggio e una certa inconsistenza della sua dimensione pubblica, bilanciando la narrazione con l’approfondimento sul suo essere figlio in cerca di approvazione. È una storia interessante su un personaggio meno interessante di quanto forse si creda.
Letizia Lamartire è una brava regista. Approdata nel 2017 con un bellissimo corto a Venezia (Le piccole italiane), ha poi debuttato con un buon lungometraggio, Saremo giovani e bellissimi, nel 2018.
Credo abbia superato una prova assai complicata, abbia avuto coraggio, molto, e dato forma a una sua interpretazione personale, sfidando un popolo alla costante ricerca di santi. La produzione, evidentemente low cost, regge botta al cospetto di altre narrazioni dell’ambito calcistico, anche recenti, più ricche e vanesie: pesano nel bilancio conclusivo i personaggi di contorno, poco approfonditi, talvolta macchiettistici, e il montaggio delle scene sul campo di gioco, rese attraverso soluzioni non semplici, con qualche sbavatura di gusto.

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