Di A.C.

Anni ’60: Jack Burns (Kirk Douglas) è un cowboy solitario legato romanticamente ai valori del vecchio West in una società americana ormai sempre più definita dalla modernità e nella quale non si rispecchia più. Contrario infatti ad ogni forma di regole, restrizioni e barriere, che per lui rappresentano la morte delle libertà individuali, vive in maniera del tutto anticonvenzionale, senza documenti né domicilio. Deciso a far evadere di prigione un amico dai medesimi ideali, intraprende un’impresa pericolosa contro ogni pronostico.
Da un romanzo di Edward Abbey adattato in sceneggiatura da Dalton Trumbo, all’epoca da poco reintegrato ufficialmente nell’ambiente cinematografico dopo l’esilio dovuto alla paralisi maccartista che lo costrinse a lavorare in clandestinità e sotto falso nome, in questo film si può leggere certamente tra le righe una biografia dello stesso sceneggiatore statunitense, il quale pagò a carissimo prezzo la fermezza nelle proprie convinzioni in un clima politico opprimente e dispotico.

Uscito in contemporanea a L’uomo che uccise Liberty Valance, con cui ne condivide in parte la struttura di western crepuscolare, e forse anche per questo motivo all’epoca passò ingiustamente sotto traccia. Senza nulla togliere al capolavoro di John Ford, Solo sotto le stelle (titolo italiano non indegno ma leggermente fuorviante dell’originale Lonely Are the Brave) è un’altrettanto dolente ed efficace elegia funebre del genere, dove il mito della frontiera lascia tristemente il passo alla nuova realtà.
Kirk Douglas offre una prova di grande carisma nei panni di Jack Burns, personaggio quantomai distante dall’eroe canonico e vincitore, ma piuttosto un pesce fuor d’acqua in un’America diversa dalla sua visione idealistica, piena di barriere, impedimenti e protocolli castranti. Un perdente destinato alla sconfitta, che però persiste nel vivere secondo il proprio ideale in sella al suo cavallo su strade trafficate di automobili.

In una narrazione dai toni asciutti e con un ottima fotografia b/n, David Miller contrappone lo spirito del suo cowboy anacronistico con l’ambientazione moderna, sottolineando quella fase di transizione dalla vecchia alla nuova società americana, nei suoi cambiamenti e in quei valori che ha barattato per favorire il proprio progresso sociale (emblematica la scena d’apertura con il protagonista in una sosta col suo cavallo mentre osserva le scie chimiche degli aerei nel cielo).
E da una prima parte di lenta ma accurata introspezione dei personaggi si passa a una seconda molto più tesa e avvincente di una fuga tortuosa e disperata fino al suo beffardo epilogo.

Oltre alla grande prova di Kirk Douglas, meritevoli di menzione anche altri comprimari quali Walter Matthau nei panni del solidale sceriffo, George Kennedy nelle vesti della sadica guardia carceraria e una giovanissima Gena Rowlands in uno dei suoi primissimi ruoli.
Film preziosissimo questo di Miller, precursore di quel western decadente che nel cinema americano troverà maggior gloria negli anni successivi e che probabilmente all’epoca della sua uscita muoveva (proprio come il suo protagonista) troppo lontano dagli schemi precostituiti per poterne ottenere immediato riconoscimento.
“Hai notato quante recinzioni ci sono? E i cartelli che vi hanno messo sopra: niente caccia, niente escursioni, niente ingresso, niente sconfinamento, proprietà privata, area chiusa, inizia a muoverti, vattene, muori!”
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