di Simone Lorenzati

Bologna, 1954. E’ lì, ed in quel preciso momento, che apprendiamo del desiderio del giovanissimo Taddeo (Pierpaolo Zizzi) di far parte della combriccola di amici che si riuniscono al Bar Margherita. Il suo desiderio è fortissimo benché, a prima vista, i clienti del bar, appaiono persone senza né arte né parte: ad esempio Manuelo (Luigi Lo Cascio) è un ninfomane coinvolto in furti d’auto, mentre Al (Diego Abatantuono), senza dubbio alcuno il leader della comitiva, riesce a farsi mantenere grazie alle spese altrui. Eppure, quell’apparente incomprensibile desiderio, risulta ben più giustificabile se si osservano meglio i protagonisti. Basta, infatti, guardarli spensierati mentre giocano a biliardo, oppure quando prendono in giro il barista, per capire come già la loro compagnia possa sembrare una enormità per un ragazzo che vive con la mamma (Katia Ricciarelli) e il nonno (Gianni Cavina). Nonno che, peraltro, alla tenerissima età di ottant’anni, si prende una sbandata enorme per la sua bellissima, e giovanissima, maestra di piano (Luisa Ranieri).

Senza aggiungere troppi particolari, cosa emerge è che, nella compagnia che si fa immortalare di fronte al bar, sono ben riassunte quelle che erano le diverse aspirazioni delle persone semplici nel dopoguerra, momento in cui, anche una città come Bologna, non appariva poi così differente rispetto ai paesini di provincia, giacché anche nel capoluogo emiliano c’era la speranza di poter svoltare. Eppure, a ben guardare, nessuno appare scontento del proprio piccolo universo, e ogni dramma sembra potersi superare.

Nonostante ciò, tuttavia, il film non si riduce a un nostalgico amarcord. Gli attori, infatti, riescono a imprimere un soffio di vita reale a figure che altrimenti sembrerebbero troppo fiabesche e naif: basti citare Neri Marcorè, che rende Bep, figlio di papà piuttosto inetto, un personaggio donchisciottesco nella sua reazione una volta che si innamora di Marcella (Laura Chiatti). Ed è, quindi, assolutamente giusto che il suo riuscire in qualche modo a dire “No, ora non ci sto più” venga infine premiato. Insomma “Gli amici del bar Margherita” è una sorta di foto dai colori tenui di un tempo che fu, tempo che, chi ha vissuto tende a idealizzare mentre, chi non c’era, prova spesso a immaginare. Prendendo a prestito le parole di Guccini: eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là.

In sostanza Pupi Avati torna agli anni della sua giovinezza in quel di Bologna. E ci racconta una storia. Anzi, tante storie. Quelle dei frequentatori di un bar bolognese negli anni in cui si tirava il fiato dopo la fine della guerra in attesa di quel boom economico ormai alle porte. Una sorta di incrocio tra I vitelloni di Fellini e gli Amici miei di Monicelli, una sorta di trasposizione del romanzo “Bar Sport” di Stefano Benni. Eppure parlare di stereotipo, visto il soggetto, è quanto mai fuori luogo.
Avati racconta proprio il tipico frequentatore del bar. E chiaro che, perciò, la macchietta diventa una specie di strada obbligata, cavalcata tuttavia, in questo caso, con una delicata misura che limita ogni eccesso a favore della verosimiglianza. Questo permette di evitare che le figure descritte diventino inerti statuine di un nostalgico Presepe grazie a una inaspettata leggerezza dei toni e una dose di cinismo che sbilancia piacevolmente il virato seppia dei ricordi verso il nero, da sempre nelle corde del regista bolognese.

Non tutto, però, convince nella pellicola di Pupi Avati. Ad esempio la sceneggiatura accarezza i diversi protagonisti piuttosto superficialmente, soffermandosi in primis su due scherzi – piuttosto crudeli e giocati ai danni di due del gruppo – nonché sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta del giovane narratore, evidente alter ego dello stesso Avati, ossia l’ottimo Pierpaolo Zizzi, in perfetta sintonia col proprio personaggio. Equilibrato e senza eccessi anche il cast di nomi noti, in cui si distinguono un inedito Luigi Lo Cascio in versione comica e un Gianni Cavina laido al punto giusto, insieme alle canzoni d’epoca che fungono da interessante collante musicale, grazie anche alle melodie di Lucio Dalla. A proposito di nei, invece, colpisce anche l’estraneità del gruppo alla guerra da poco conclusasi o, semplicemente, alla situazione politica del paese (molto spesso al centro delle discussioni da bar, figuriamoci nella comunista Bologna).

Tuttavia il film si lascia apprezzare per una sincerità di un sentire, di un percepire, che dal personale che riesce ad uscire dall’autobiografia per divenire una sorta di voce universale. Curiosità: la maggior parte del film non è stata girata a Bologna – riconoscibile solo in alcuni brevi inquadrature – bensì a Cuneo dove, pare, i portici del centro storico ricordino perfettamente quelli bolognesi del primo dopoguerra. Del resto i sogni di rinascita, e i bar dove viverli, erano comuni ovunque.
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