di Roberta Lamonica

Ultimo film della cosiddetta trilogia dell’appartamento, che include anche Repulsion (1965) e Rosemary’s Baby (1968), L’inquilino del terzo piano, di Roman Polanski è tratto dal romanzo del 1964 di Roland Topor, Le Locataire chimérique (The Tenant in inglese). Polanski non aveva pensato le tre pellicole come trilogia ma è indubbio che i tre film condividano istanze narrative, atmosfere e setting, cioè un appartamento che diventa prigione inespugnabile per la mente e l’anima dei protagonisti. Scritto con Gérard Brach e realizzato con la louma, gru che permetteva movimenti di macchina all’avanguardia, L’inquilino del terzo piano è un film ipnotico e destabilizzante dalla storia tutto sommato semplice.
Trama de L’inquilino del terzo piano
Un polacco naturalizzato francese, Trelkovski (Roman Polanski), vorrebbe prendere in affitto un appartamento precedentemente abitato da una certa Simone Choule che giace in ospedale in fin di vita dopo aver tentato il suicidio gettandosi dalla finestra del suo appartamento. Accolto con malagrazia dalla portiera (Shelley Winters) e dal proprietario dell’appartamento Monsieur Zy (Melvyn Douglas), Trelkovski riesce ad ottenere l’appartamento dopo la morte di Simone che lui era andato inspiegabilmente a trovare in ospedale. Lì incontra Stella (Isabelle Adjani) amica di Simone e con lei inizia a ‘conoscere’ più a fondo la vita dell’inquilina precedente. Una serie di strane coincidenze e di eventi grotteschi porteranno Trelkovski a identificarsi sempre più con Simone, con conseguenze drammatiche.

Il tema dell’estraneo ne L’inquilino del terzo piano
Film dalla struttura circolare, in cui nessuno muore mai davvero o vive davvero, L’inquilino del terzo piano è un film angosciante, dove l’inquietudine e il mistero sono tangibili soprattutto all’interno del palazzo in cui si trova l’appartamento che respira e vive in autonomia, attraverso i rumori che diventano vera e propria ossessione per Trelkovski: il sentire rumore, fare rumore, o l’essere accusato di farne diventa un leit motif del film, contribuendo (o solo segnalando?) alla psicosi del protagonista. Il tutto sempre sottolineato dalla musica insinuante di Philippe Sarde e da un finale aperto a più interpretazioni.
Al cuore del film c’è sicuramente il tema dell’ estraneità. Polanski si doppiò da solo in italiano, in inglese e francese per rendere ancor più palpabile questo senso di estraneità. Ossessionato dai fantasmi della sua infanzia da esule perseguitato, Polanski ripropone a vari livelli nella sua filmografia la figura dell’ebreo errante che non trova casa ed è perseguitato appunto, un invisibile per il mondo. Quando entra nell’appartamento, ad esempio, è come se Trelkovski entrasse in un ‘lager’ con una valigia piena di vecchie foto e un pigiama a righe inquadrato da vicino. A conferma di ciò, quando si affaccia per la seconda volta e vede il bagno comune si ha la percezione di un’intimità violata, esposta come nei campi dì concentramento.

In questo film Polanski crea un’atmosfera indefinita e sospesa per farci perdere le coordinate in diversi modi anche attraverso il personaggio del protagonista – quasi un travais dostojeskiano – che sembra sospeso in una dimensione atemporale che rende difficile definirne caratteristiche e pensieri. Trelkovski prova ad asserire la sua identità alienandosi sempre più e rifiutando l’identità gradualmente impostagli dal microcosmo claustrofobico del condominio, affermando ripetutamente “Io non sono Simone Choule!”.
Eppure, il suo tentativo di plasmare la sua identità secondo il suo sentire, si scontra con il fatto che in realtà questa libertà altro non è che un‘illusione. Reso insicuro e instabile, in una scena del film Trelkovski perde pezzi dalla busta dell’immondizia come se perdesse pezzi di identità. Quando risale le scale per raccoglierla, l’immondizia che ha perso non c’è più, come se la rimozione dell’immondizia andasse di pari passo con la cancellazione della sua personalità.

Il Doppio e gli Specchi ne L’inquilino del terzo piano
Rispetto al materiale letterario, il film risente chiaramente dello stile di Polanski, il suo focus sull’identità e il doppio, in particolare. Fin dai titoli di testa, infatti, si è consapevoli della presenza dei condomini celati dietro le finestre scrostate. Non solo ciò contribuisce a creare suspence, un’atmosfera di mistero e orrore imminente, ma introduce fin da subito il ruolo centrale del doppio nello sviluppo della narrativa filmica, rappresentando Trelkovski come la reincarnazione di Simone Choule, dietro la finestra. Inoltre, mentre la stessa macchina da presa è utilizzata nelle scene finali di Repulsion, Rosemary’s Baby e Chinatown (1974) come un modo per disconnettere e interrompere l’identificazione con le protagoniste e prendere le distanze “dal massacro di cui è stata testimone” (Caputo 149), ne L’inquilino del terzo piano essa prefigura l’ambiguità della scena finale e riassume tutta la narrazione filmica proprio in virtù del suo utilizzo nella sequenza di apertura, così “immobile rispetto a un piano di realtà diegetico decisamente ambiguo”.

Il doppio è uno dei più antichi tropi letterari. Nella sua forma culturale si trova l’origine del Doppio nelle credenze primitive relative al riflesso dello specchio/acqua e alle ombre (Rank, “The Double as Immortal Self” 74). Rank sostiene che da tempo immemore, gli uomini sono preoccupati e spaventati dalla loro morte. Così, per proteggersi dalla coscienza della loro mortalità, hanno sviluppato una dicotomia corpo-anima e hanno associato quest’ultima alle ombre.

Questo aspetto nel film è particolarmente evidente nei riferimenti all’Egitto e ai suoi simboli. I riferimenti al sarcofago nel bagno comune del palazzo, su cui sono incisi dei geroglifici, il dente nel muro, le bende sul corpo di Simone, che fanno di lei una mummia, aumentano i tratti di mistero e la sensazione di una comunicazione sinistra tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Evidenti anche i richiami alla filosofia di Lacan nel film con al centro lo ‘stadio dello specchio’ in cui si innesca un conflitto tra individuo e immagine speculare che dura tutta la vita. All’identificazione di un individuo con un altro consegue l’alienazione rispetto al proprio io. Ciò avviene sia letteralmente, cioè attraverso la presenza di veri specchi, sia figurativamente, attraverso l’identificazione di Trelkovski con Simone.

Gli specchi giocano un ruolo significativo nel cinema di Polanski. Da Due uomini e un armadio (1958), in cui lo specchio riflette la decadenza e la corruzione del mondo, in altri film gli specchi hanno la stessa funzione che hanno in Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931); cioè una superficie che indica la disintegrazione dell’immagine del proprio sé e l’instabilità e imprevedibilità del mondo (Coates, Doubling, Distance and Identification 63). Allo stesso modo in Repulsion, se il momento in cui Carol (Catherine Deneuve) guarda nell’armadio di sua sorella e tocca i suoi abiti segna l’inizio della sua trasformazione nella sorella, da cui la disintegrazione della sua identità, questo momento coincide con la disintegrazione del suo mondo esterno, segno della quale è l’immagine del carpentiere riflessa nello specchio. In modo analogo, la psicosi di Trelkovski e il conseguente crollo del suo mondo simbolico iniziano quando vede l’immagine del suo doppio riflessa nella finestra del bagno comune, dove la finestra qui funziona da superficie riflettente. In un’ottica lacaniana, Simone Choule ha una specie di funzione di specchio in relazione a Trelkovsky, formata attraverso l’introiezione di un’immagine femminile.

Trelkovski e la vergogna
È stata spesso definita kafkiana la situazione in cui Trelkovski viene a trovarsi e lui stesso è stato definito un personaggio kafkiano. Di certo Trelkovski è un personaggio meschino e inetto, non mosso da valori forti e sentimenti di generosità o altruismo; in più occasioni parla di denaro o prova a trarre vantaggio da situazioni che si creano casualmente (con la portiera, con Monsieur Zy e con Stella, per esempio). Fin dall’inizio del film sensazioni di imbarazzo e vergogna sono tra le principali caratteristiche di Trelkovsky dal momento che “i suoi movimenti incerti ed esitanti e la sua eccessiva cortesia” sembrano caratterizzarlo come un “essere inferiore”, la cui presenza nello stabile vada continuamente ridiscussa e giustificata. Questa percezione lo porta non solo a giustificarsi continuamente per del rumore che non ha fatto, ma a provare vergogna per il solo fatto di esistere, di essere Trelkovsky, perché così, indegno e minore, appare agli altri.

C’è una chiara indicazione del senso di vergogna di Trelkovski nella scena della visita in ospedale. Guardando Simone che giace nel letto e sembra non consapevole della sua presenza, con una busta di arance tra le mani, sobbalza quando sente la voce di una donna. Imbarazzato, Trelkovski fa cadere le arance e, non inaspettatamente, si scusa con Stella. Probabilmente Trelkovski auspica inconsciamente la morte di Simone e questo potrebbe essere l’unico motivo per cui lui vada al suo capezzale con una -inappropriata al contesto- busta di arance (e se fosse un’anatomia con la prigione? Con la reclusione in una cella/sarcofago per l’eternità?). Il senso di soffocamento che lo attanaglia in chiesa durante il funerale di Simone, dove Trelkovski sa che Dio e la sua propria coscienza lo guardano, sarebbe ulteriore prova di questo auspicio di morte verso qualcuno la cui unica colpa è quella di avere in affitto l’appartamento che si desidera. Questo, come già accennato, potrebbe essere motivato dalla storia personale di Polanski, dal suo essere un esule e del suo bisogno di appropriarsi di una casa, di un’idea di famiglia. Dopo la visita in ospedale dal quale Trelkovski e Stella vengono allontanati per aver arrecato disturbo alla pace di Simone, i due vanno in un Cinema dove, sempre piuttosto inappropriatamente, iniziano ad amoreggiare. Di nuovo Trelkovski è assalito dalla vergogna di essere guardato da un uomo nella fila dietro di lui. E subito smette, abdicando al suo desiderio virile.

E anche questo senso di vergogna potrebbe deporre per la progressiva identificazione tra Trelkovski e Simone. Da una parte sembra che gli altri inquilini lo accettino e lo tollerino in virtù del suo riprodurre gli stessi tratti comportamentali della precedente inquilina; in questo senso, lui deve diventare la remissiva Simone, che indossava pantofole dopo le 10, che fumava Marlboro e beveva cioccolato al mattino. D’altro canto, però, i suoi amici e colleghi (uno dei quali è esempio lampante di maschilismo tossico) si aspettano che lui sia un uomo assertivo, capace di imporre le sue opinioni con i coinquilini. Nel tentativo di corrispondere a entrambe le immagini, di incarnare la sottomissione associata alla femminilità e la sfrontatezza che caratterizza la mascolinità, Trelkovsky si rassegna al travestitismo e la sua psicosi potrebbe essere generata dai suoi tentativi di soddisfare i bisogni e i conflitti tra le due immagini per far armonizzare due definizioni dissonanti di se stesso.

E ciò che alla fine rimane dei suoi tentativi e conflitti è l’urlo di Trelkovski, distruzione simbolica di quelle stesse regole sociali che ci si aspettava seguisse. Matt Mamula lega il perturbante a un disturbo linguistico ed enfatizza il ruolo inalienabile del linguaggio e la sua mancanza. l’urlo grottesco di Trelkovsky alla fine del film, quando è vicino al suo doppio, indica il collasso del linguaggio a uno stadio pre verbale associato al perturbante e lo inscrive nell’idea di una forma di protesta finale. Il risultato dopo l’ultimo tentativo prima di saltare fuori dalla finestra di affermare che lui non è Simone Choule, rappresenta per Trelkovski la definitiva perdita dell’abilità linguistica. Incapace di pronunciare alcuna parola, non ha alternativa che emettere un grido che esprima il suo rifiuto di accettare una tale trasformazione.

Il ruolo sociale di Trelkovski
Dal punto di vista sociale, L’inquilino del terzo piano dipinge le dinamiche della stigmatizzazione sociale di un individuo. Da un lato, non appena Trelkovski mette piede nel palazzo e stabilisce un contatto visivo -ancor prima che verbale- con la portiera, Monsieur Zy e sua moglie (Florence Blot), egli viene screditato venendo scambiato per uno che chiede l’elemosina o uno scapolo libertino. Questa ostilità immotivata sembrerebbe provare che il microcosmo chiuso del condominio rifiuta gli stranieri. Inoltre, la sua nazionalità viene continuamente tirata in ballo come forza stigmatizzante.

Pur se polacco, naturalizzato francese, è solo quando si identifica con Simone che perde la sua origine polacca e viene percepito come esclusivamente francese. E gli vengono negati diritti sacrosanti in virtù del fatto che non è nato in Francia. Monsieur Zy gli consiglia di non informare la Polizia dell’effrazione a casa sua perché il suo essere straniero potrebbe creargli più problemi. D’altro canto, come tutti gli stigmatizzati, il problema principale di Trelkovski è l’accettazione. La sua ricerca di accettazione, fallita in retrospettiva, la ottiene al costo della rovina della sua vita sociale, di perdere i suoi amici e colleghi e di diventare un estraneo ai loro occhi (per esempio, viene più volte escluso da conversazioni al lavoro e fuori). L’incapacità di Trelkovsky a mantenere la sua identità secondo le norme prescritte dal microcosmo malato in cui si muove, lo conduce progressivamente ad alienarsi dalla comunità che sostiene la norma. Così, Trelkovski non appartiene al mondo conosciuto dei suoi amici né a quello sconosciuto dei vicini. Rompe con gli uni e si suicida davanti agli altri. L’ isolamento potrebbe essere l’innesco delle allucinazioni di Trelkovski e la sua conseguente schizofrenia. In altre parole, quando Trelkovsky è costretto ad allontanarsi dai suoi amici e colleghi per corrispondere alle regole, è privato di un feedback sociale necessario e per ‘difendersi’ inizia a credere che i suoi vicini stiano tramando contro di lui.

Quando l’identificazione tra Trelkovski e Simone è completata anche a livello esteriore con il travestimento, ciò che rimane dell’identità maschile di Trelkovski alla fine del film è solo il proprio nome con cui rivendica disperatamente la sua individualità. Se un nome non è abbastanza per determinare un’identità, in questo caso è comunque indicativo, dato l’esotismo dello stesso in una società xenofoba, in cui le probabilità di pronunciarlo male e isolato dalla norma sono significative. E in aggiunta a ciò, nelle lingue slave la desinenza sky/ski è solitamente maschile, cosa che sembrerebbe essere l’unica indicazione della sua mascolinità.
La rappresentazione esplicita del conflitto tra le due identità di Trelkovski avviene quando egli, con abito, trucco e parrucca femminili, ammira la sua immagine femminilizzata allo specchio e descrive questa immagine come “Bella, bella, adorabile, dea, divina”. L’ammirazione di Trelkovsky per la sua immagine femminile rivela anche un piacere narcisistico ed erotico che a lui, come travestito, proviene dal guardare il suo riflesso nello specchio.

Un film complesso, affascinante, indimenticabile, ogni nuova visione del quale aggiunge particolari ed elementi di riflessione e spunti di interesse. Capolavoro di un genio controverso e tormentato. Imperdibile